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ITALO Facciamo un discorso che è proprio il rovescio di quelli clic si son ripetuti da qualche mese a questa parte. I critici letterari errano o hanno errato non perchè non usino rivolgersi ai capolavori classici, alle opere dei secoli passati’, ina anzi per la disattenzione e per l’incuria con la quale considerano quello che succede nel tempo loro. Lo starsene zitti riguardo alle somme opere vorrà dire o che non le sanilo gustare, o clic temono, per reverenza, d’intrudersi fra gli spiriti magni;?

il danno sarà tutto loro. La noncuranza, invece, che non di rado aflèttano per le opere nuove si risolve in una specie d’ingiustizia, sia nei confronti del pubblico, sia in quelli degli autori. Quando il servizio d’informazioni non funziona, si va incontro, alla cicca, alle peggiori sorprese Anche questa noncuranza, però, si riesce a giustificare; c tanto meglio, se è un vero fastidio, una previsione dell’inutilità delle proprie fatiche c uno sgomento a vedere clic sotto le stesse etichette le stesse cose mediocri via via vanno ripetendosi, senza che ci sia mai un guizzo nuovo, o si palesi un nuovo aspetto di vita, una nuova tendenza d’arte. D’altra parte sarebbe- criterio assai fallace l’andar ricercando come elemento artistico, nelle produzioni letterarie, la «novità». Mi pare quindi che questo punto, della «novità» che attrae o respinge, secondo i temperamenti, chi le si accosta, sin il crocicchio, e un poco il tormento, di «pianti cercano di appagarsi in un’arte prodotta nel loro tempo; e abbagli come un miraggio i «contemporanei» c i «moderni», desiderosi di veder rispondere le loro aspirazioni momentanee in un cielo dove tutti gli sguardi convergono c ogni tempo è contenuto; fra essi, anche quelli che meno si fidano dei nuovi tentativi e delle nuove persone artistiche. Le vorrebbero escludere in fatti i>er amore a un’altra novità — un poco più vecchia; alla quale parteciparono con impegno, clic salutarono nelli loro adolescenza c riconobbero nella propria formazione. Così d’altronde si fanno le tradizioni, che avvincono stretti a sè per un domani un i>oco segregato e guardingo quelli che ieri furono pieni di baldanza e confidarono senza timoreParrà strano che si discorra tanto «lei «nuovo», prendendo a trattare d’uno scrittore il quale trova il suo luogo tra i vecchi, nato circa sessantacinquc anni or sono, edito per la prima volta nel 1893. Ma questo scrittore interessa prima di tutto come fenomeno della •critica, in quanto cioè l’esempio delle sue critiche vicende ha importanza, e dovrebbe aver riflessi, nel costume dei nostri critici o recensori.

Le tappe cronologiche della sua attività sono il novantatrè, il novantotto, il millenovecento ventitré. Ma i suoi due primi libri non ebbero risonanza, e il rumore riguardo all’ultimo s’è levato nell’autunno del ’25, a traverso interventi stranieri e per una via tutt’altro che diretta. Che il silenzio su questo scrittore sia stato ingiusto, parrà evidente per la stessa fama, per fortuna non postuma, che ora lo assiste. Ma l’ingiusto silenzio è cagione altresì d’una forma di fama ingiusta.

•Calata di lontano, da climi letterari differenti e per contatti clic sembrano assai occasionali, essa vuol rivelare aspetti e forme di •questo scrittore clic, in quella luce, oscurerebbero altre sue qualità molto più ingenue, per includerlo in una tendenza, nella quale non gli spetterebbe altro clic un posto assai •secondarioRagioni geografiche (c tipografiche) escludevano, in quegli anni, lo scrittore triestino da un’assidua vicinanza con la vita letteraria italiana. I suoi due romanzi (er le quali abbiamo pronta la frase e come evitiamo quelle clic ei obbligherebbero di ricorrere al vocabolario! E’ proprio così che scegliamo della nostra vita gli episodi da notarsi. Si capisce come la nostra vita avrebbe tutt’altro aspetto se fosse detta nel nostro dialetto».

E non è vero. E’ proprio il dialetto — quel dialetto che guasta l’aspetto della vita. Parlate a quel modo, tutte le relazioni diventano insulse, coni’è insulsissima la <1 società» triestina clic al nostro autore piace di ritrarre.

Non c’è larghezza d’argomenti da cui si possa ritagliare un discorso, nè profondità o compattezza in cui si possa scavare un carattere Nato in un porto c dalla confluenza di genti diverse, è quasi solamente un gergo, come poteva essere la lingua franca negli scali del levante, o quale oggi il linguaggio americano rispetto all’inglese; una riduzione all’assurdo a forza di toni brevi, pratici e di paurosa parsimonia nel vocabolario.

Diciamo questo perchè lo Schmitz avrebbe bisogno di superare il dialetto, «li essere più che triestino. La facoltà d’intender gli animi, «li crearli, gli si fa facoltà ironica anche per la incompiutezza in cui rimangono, quando urtano alle porte chiuse dello sua ignoranza c della sua incapacità (Immaginare. Allora, sguscia per una via traversa c si mette a guardarli in tralice. Per intendere a fondo e rappresentare bisogna superare e dominare. Fincliè si resto sullo stesso piano, non si può che spostare l’angolo visuale e capire c vedere una linea per volta. Altri triestini, avendo in cuore 10 scontento della vita che li aveva formati, se ne sono astratti e le hanno risposto a toni rudi, con cupe c romantiche risonanze di pensiero; hanno cercato in sè l’asprezza del Carso come simbolo e matrice della città loro, contro alle sue apparenze; c hanno raggiunto così* l’unità dello stile.

Tutt’nJtra mi pare la via percorsa da Italo Svcvo. I rari suoi momenti di liricità dif endono da stati di trasporto sensuale, noti dr un dominio sulle impressioni e da un ordine proficuo posto nelle emozioni e nella fantasia.

Quando lo hanno accostato a scrittori famosi per il modo onde sanno analizzare c far vivere la psiche dei loro personaggi si direbbe clic hanno preso sul serio una finzione lei suo ultimo libro, di cui egli stesso nelle ultime pagine si burla. Il nome di Proust c quello di Joyce potrebbero essergli messi accanto solo per contrasto, per indicare la completa divergenza c alcune delle sue deficienze più palesi. Lo Svcvo non sa scrivere una frase dove sia un inciso, si perde nel nesso temporale dei verbi, non conosce il segreto di nessun giuoco di profondità; il confronto con una pagina di Proust gli è addirittura micidiale.

Viceversa, Proust stesso potrebbe imparare da lui a incidere più rapido, a atteggiar le figure con due segni, invece clic con mille parole; se imparare queste cose gli avesse potuto esser utile, e non fossero contrastanti col suo modo. Joyce poi v’imparerebbe l’ordine, sia pure un ordine esterno, piatto e poco convincente; meglio però di quel suo mare in subbuglio dove si vcdon perdersi alla deriva tanti informi rottami.

La necessaria povertà dell’espressione gli si è dunque rappresa in una brevità, clic assai spesso è piena di senso e aiuta tanto meglio delle sue parole a intendere e a rappresentare.

Il genio (lcH’osservatorc (che è a sua volta creatore, ma secondo aspetti minuti, improvvisi c secondo sintesi di momenti che s’armonizzano) si rivela in lui in frasi staccate, semplici, diritte, perdute in mezzo al racconto che ha in genere i difetti e le poche virtù del naturalismo, ch’egli ha ammirato e seguita ad ammirare. I ritratti fisici c le notazioni psicologiche si combinano c s’accoiti pagimno; spesso, secondo quelle vecchie mode c credenze, si fanno paralleli. Li nota caratteristica degl’individui è talvòlta presa da un loro atteggiamento, da una frase o ria una parola ricl loro discorso fermata e segnata a volo; come s’è detto, le sue creature se le guarda di sbieco. La visione fuggitiva d’un impiegato è la presentazione d’un individuo c d’un carattere («Entrò correndo Sanneo, il capo corrispondente. Era un uomo sulla trentina, alto e magro, i capelli d’una biondezza sbiadita. Aveva ogni parte del lungo, corpo in continuo movimento; dietro agli occhiali si movevano irrequieti gli occhi pallidi >1). Il capo dell’azienda ci è presentato con un suo atto abituale: «Alfonso salutò e il signor Mailer rispose col medesimo cenno a lui e a Giacomo. Faceva sempre dei saluti collcttivi»; nc vedete sùbito la fretta e il sussiego.

Alfonso Nitti, pur neH’cvidcntc sua ignoranza, sogna il mondo delle lettere c se ne fa un paradiso; il sogno si rifrange nella realtà meschina, aiuta a sopportarla: «... Alfonso, per legare l’attenzione al lavoro, usava quando era solo di declamare ad alta voce la lettera, e quella si prestava alla declamazione essendo rimbombante di paroioni c di cifre enormi, leggendo ad alta voce la frase e ripetendola nel trascriverla, scriveva con meno fatica perchè bastava il ricordo del suono ncll’orccchio per dirigere la penna». Anzi, la rialza e la sublima: «usciva non appena deposto il libro, c dopo quell’ora passata con gl’idealisti tedéschi, gli sembrava sulla via che le cose lo salutassero».

Ecco qual è, per Alfonso, il rimedio dcll’nmore:

«Quando era dinanzi a Lucia ne vedeva gli zigomi sporgenti. Stava all’erta!

Non sentiva desiderii». Quando l’amore viene, l’animo timoroso e la sua segregata delicatezza non ci regge: «Le baciò le mani che ella gli abbandonava e quest’abbandono non gli dava altro piacere che di sentirsi rassicurato del tutto, ma anche la noia di dover simulare un grande entusiasmo». Nemmeno il possesso lo rassicura: «Se c’era, la felicità «li Alfonso veniva diminuita da un timore. Quella donna che in una sola ora aveva mutato di sentimenti e d’opinioni era forse impazzita?» «Egli salutò agitando alto il cappello.

11 gesto era trovato, ma a lui mancava la sensazione corrispondente. Al vedere Annetta alla finestra, s’era ricordato che così s’usava in amore». E trova una finta forza nell’abbandono: «Egli ora era un uomo nuovo che sapeva quello che valeva. L’altro, colui che nveva sedotto Annetta, era un ragazzo malaticcio con cui egli nulla aveva di comune. Non era la prima volta ch’egli credeva d’uscire dalla puerizia».

Ecco un aforisma, tratto da mi movimento dell’animo (l’Alfonso: «S’era adirato, perchè nulla è più irritante che non venir sùbito compreso (piando si finge» liceo, espressa con un simile contrasto, la dolcezza del subitaneo ricordo del padre: «E ancora una volta rivide la fisionomia del padre, che pensava e parlava proprio cosi, mai tanto vicino a sorridere come quando il suo volto s’atteggiava a grande serietà e la sua parola risonava pateticamente commossa».

Gli esempi addotti vengono tutti dal primo romanzo, «Una vita»; già in quello, e più nei due seguenti, nella notazione psicologica subentra assai naturalmente l’arguzia e l’ironia, piega più conscia dello spirito che conosce le debolezze degli altri, le loro miserie; e le mitiga e le sostiene coli’accostarlc a casi c a motivi impensati che implicano, appunto per la loro distanza, una solidarietà generale c una scambievole remissione. La tragedia d’Alfonso è fatta più umana clall’occliio clic la vede un po’ per volta maturare; sicché ’1 tono concitato c (piasi augurale di certe pagine non predomina, cd egli non assurge a simbolo ili catastrofe nobile c programmatica, come il giovane Werther. Il tono minore, la luce crepuscolare proviene in parte dalla generale tendenza realistica del racconto; ma anche la supera c se ne svolge, con l’atteggiamento di timidezza sofferente che è proposto, nella persona d’Alfonso, quasi in antitesi e all’ammirazione degli altri poco vivi personaggi; c, questo romanzo, si potrebbe ascriverlo anche a qualche lontana parentela dostoieschiana.

In. «Senilità» il campo esterno è allargato.

La piccineria e la miseria d’Emilio Brentani spiccano nel contrasto con la salute e la giovinezza dei movimenti, buoni o cattivi, dclrAngiolina c dello scultore Balli; si rivelano nella pietà stizzosa e risentita che gl’ispira la sorella delirante. Trieste vi è una cosa viva, con soffi di bora, raffiche di pioggia, luci e tramonti; il Balli, clic sarebbe il pittore Vcruda, agisce e parla per sè, all’infuori degli occhi d’Emilio, clic non riescono a vedere mai con giustezza ncll’aniino dcll’amico. La disfatta del Brentani è predetta fin dalle prime pagine: «Per la chiarissima coscienza ch’egli aveva della propria opera, egli non si gloriava del passato però, come nella vita così anche nell’arte, egli èredeva di trovarsi ancora sempre nel periodo di preparazione. Viveva nel futuro sempre in aspettativa, non paziente, di qualche cosa che doveva venirgli dal di fuori, la fortuna, il successo, come se l’età delle belle energie per lui non fosse già tramontata». L’ansia clic gli cova in cuore, non mai generosa, lo predestina al fallimento: «L’amore delle donne era per lui qualche cosa più che non una soddisfazione di vanità, ad onta che, prima di tutto ambizioso, egli non sapesse amare. Era il successo quello, o gli somigliava di molto». Benché meno arrogante, il Brentani è qui disegnato, c con pochi tocchi, non molto dissimile da quel che sarà poi Rubò. Ma la definizione della sua amicizia col Balli ce lo presenta anche trtcglio: «La loro relazione ebbe l’impronta del Balli. Divenne più intima di quanto Emilio per prudenza avesse desiderato... (essi) andavano perfettamente d’accordo. Accordo facile; il Balli insegnava, l’altro non sapeva neppure apprendere.

Fra di loro non si parlava mai delle teorie letterarie complesse d’Emilio, poiché il Balli detestava tutto ciò che ignorava. Uomo nel vero senso della parola, il Balli non riceveva (vuol dire: non accettava opinioni, influssi altrui) e quando si trovava accanto il Brentani, poteva avere il sentimento d’esser accompagnato da una delle tante femmine a lui soggette». Si tratta d’un uomo che non sa vivere c che sarà stroncato. Le vicende della stroncatura non consentono che s’incrudelisca contro di Ini; di volta in volta viene lo spunto per il quale si riesce a compiangerlo, ridendo.

La «Coscienza di Zeno» è più che altro una mastodontica burla; o meglio un fallimento annullato, la rivincita su alcune sconfitte, imaginaric ma sofferte, ottenuta con lo sforzo di ristabilire fra tutto le proporzioni necessarie e di comprendere e «smontare» i vari momenti quasi tragici. Zeno Cosini, clic si finge e poi si crede ammalato, canzona, quando è giunto alla fine, il metodo di cura che s’è prescelto. Così gli dice il medico, fanatico della psicoanalisi: «Scriva! scriva I Vedrà come arriverà a vedersi intero». Così poi egli conclude, quando si sottrae all’ostinatezza del medico, e ne ride: «Io proposi al dottore di prendere delle informazioni (riguardo ai fatti raccontati e sottoposti alla sua scienza interpretativa).

A mio sapere egli non s’indirizzò a nessuno di costoro, e devo credere che se ne astenne per la paura di veder precipitare per quelle informazioni tutto il suo edificio di accuse e di sospetti. Chissà perchè si sia preso di tale odio per me? Anche lui dev’essere un istcricone clic per aver desiderata invano sua madre, se ne vendica su chi non c’entra affatto».

Il libro è in fin dei conti l’autobiografia d’un buon Triestino, ricco e inetto, che porta il destino del suo agio inerte in tutte le sue relazioni, ha tempo da perdere c è assai normale.

Appunto perchè è normale, non è un uomo sano e, come tutti i perdigiorno, è fissato sulle proprie malattie. Si può ammettere che Io Schmitz abbia sentito l’influsso delle recenti teorie freudiane, e abbia avuto l’intento di far ancora un romanzo naturalisticosperimentalc su i casi delle nuove ncvropatìc; ma, di fatto, n ogni pagina fa capolino il buon senso; c il malato si dimostra assai accorto quando prende in giro i suoi medici e il male.

L’ironia è dunque meno sostenuta e distante, a volte semplice voglia di ridere, spirito buffonesco del racconto. Se si potesse, varrebbe la peno di riportare tutta la scena spiritica della dichiarazione d’amore, e quella successiva del fidanzamento con la più brutta fra tre sorelle dopo «lue prove fallite. Della seduta spiritica, cccone un tratto: «Guido (è il rivale in amore) coprendo con la sua la voce di tutti impose quel silenzio clic io, tanto volentieri avrei imposto a lui. Poi con voce mu