Tahmuràs diede allor; ma lungo tempo 445La pugna non durò. Di tre due parti
Ne fe’ carche di ceppi, arte adoprando
Di possente magia, l’antico sire,
E gli altri tutti con la ponderosa
Clava atterrò. La miseranda schiera 450Tratta fu in ceppi, sanguinente ancora
Dalle aperte ferite. I vinti Devi
Chiedean la vita in dono. Oh! non ucciderci,
Diceano, almo signor. D’arti novelle
Avrai scïenza, e ten verrà gran frutto. 455 L’inclito sire lor fe’ grazia, ascose
Cose purchè da lor fossergli aperte;
E quei, disciolti dalle sue catene,
Obbedïenza gli giurâr costretti,
E al magnanimo re l’arte ammiranda 460Della scrittura addimostrâr, novella
Luce portando al suo fervido core.
Nè una soltanto, ma ben trenta foggie
Di segni gli svelàr, persiani e greci,
E pehlèviche cifre, arabe, e quelle 465Che usa l’India remota, e le cinesi
Notando, se ciò udisti. Oh! quante cose
Prima ancora operò belle e leggiadre
Per trentanni di regno il savio prence!
E giunse il fin de’ giorni suoi. Morìa 470Placidamente: ma di lui restava,
Ricordo egregio, ogni opra sua leggiadra!
Non nutrirci tu adunque, o avara sorte,
Poi che mieter vuoi tu la dolce vita!
Che se la mieti, qual raccogli frutto 475Dal nutricar?... L’uom tu sollevi all’alto
Cielo a principio; ratto poi l’affidi
Alla sua tomba desolata e grama.