Pagina:Il Marchese di Roccaverdina.djvu/107

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avere soccorsi di semenza e di alcune giornate di quegli aratri di nuovo modello da lui fatti venire da Milano. La lunga siccità aveva reso duri come il ferro i terreni, e i vomeri ordinari non riuscivano a spezzarli per preparare i maggesi.

— Abbiamo la mano di Dio addosso! — conchiudevano malinconicamente.

Egli non osava di rispondere, come le altre volte: — La vera mano di Dio che vi pesa addosso è la vostra pigrizia!

Guardava un po’ scoraggiato anche lui quelle campagne dove non si scorgeva un fil d’erba, quel cielo che, da mesi e mesi, non mostrava agli occhi ansiosi l’ombra di una nuvoletta all’orizzonte. Soltanto l’Etna fumava, quasi volesse ingannare la gente facendo scambiare per nuvole le dense ondate di fumo del suo cratere, che il vento disperdeva lontano.

Verso sera, la spianata del Castello si popolava di contadini, di gente di ogni condizione che venivano a interrogare il cielo per trarne qualche buon augurio. Le serate erano dolci, quantunque già si fosse alla fine di novembre. Non spirava un alito.

Il canonico Cipolla, che aveva letto i giornali in Casino, prognosticava vicina la pioggia.

— A Firenze piove da un mese, giorno e notte! In Lombardia, fiumi rigonfi straripano, allagano le campagne. Il cattivo tempo è in viaggio; arriverà anche qui!