Pagina:Il Marchese di Roccaverdina.djvu/108

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E i contadini che stavano a udirlo a bocca aperta, volgevano gli occhi verso il levante per scorgere qualche indizio che annunziasse il prossimo arrivo del cattivo tempo in viaggio, e sarebbe stato tempo benedetto!

L’anno avanti non si era raccolto neppur tanto da compensare della semenza gettata nei solchi. Le ulive si erano risecchite su le piante. Per ciò tutti si sforzavano di raddoppiare la sementa, risparmiando il grano da molire, stringendosi le cigne dei calzoni attorno allo stomaco, sperando di rifarsi col nuovo raccolto.

E il marchese parlava poco e senz’alzare la voce, ora passeggiando su e giù per la spianata, dal bastione allo zoccolo della croce, ora seduto su uno scalino di esso, sentendosi lentamente compenetrare dalla costernazione che si leggeva su tutti i volti e dalle parole di tristezza che uscivano dalla bocca di quei poveretti.

Essi se ne andavano a uno a uno, a due, voltandosi indietro per dare un’ultima occhiata a quel cielo limpidissimo, a quelle campagne riarse, a quei monti lontani che non si erano coperti di neve e dietro i quali non si affacciava da mesi uno straccio di nuvoletta.

Anche quei del Casino che venivano lassù non a godere il fresco ma a spiare, come la povera gente, il cielo di bronzo, l’orizzonte senza vapori e l’Etna che fumava, anche quei del Casino non discu-