Pagina:Il Marchese di Roccaverdina.djvu/246

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l’avvenire che doveva arrecare straordinari mutamenti alla sua vita. Ma quella solitudine, quel silenzio, quelle ombre che si raccoglievano negli angoli per la scarsa luce del lume gli davano una paurosa sensazione che gli faceva girare timidamente gli occhi attorno e della quale si garriva nell’intimo come di fanciullesca viltà.

La paura dell’ignoto! Oh! Lo sapeva benissimo; aveva creato tutte le chimere delle religioni, tutte le leggende del mondo di là; gliel’avevano insegnato i libri prestatigli dal cugino Pergola! Li rileggeva di tanto in tanto, per fortificarsi, quando i suoi convincimenti vacillavano, quando le influenze ataviche rialzavano la testa per ridurlo simile ai selvaggi, agli uomini primitivi che tremavano pei fantasmi creati dalla loro fantasia e poi stimati realtà. Quei libri avevano ragione.

Ciò non ostante, le impressioni della giornata agivano ancora sui suoi nervi. Bisognava rassegnarsi a sopportarle finchè non si fossero affievolite e dileguate, proprio come le allucinazioni prodotte dalla febbre, che svaniscono appena l’accesso diminuisce di grado. Così talvolta, durante il delirio, si capisce di delirare, ma non si subiscono meno le allucinazioni morbose.

Si sentiva in uno di questi momenti. Infatti ragionava, derideva i terrori suscitatigli dalle parole del notaio Mazza, dalle sciocchezze di don Aquilante