Pagina:Il Marchese di Roccaverdina.djvu/51

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sere in casa sua, e teneva udienze seduto su gli scalini di gesso dello zoccolo, sul quale anni addietro i missionarii liguorini avevano piantato una croce di legno che un colpo di levante aveva portato via sfasciandola, e non era stata sostituita.

Verso il tramonto, i contadini del vicinato salivano lassù per osservare come si coricava il tempo e per dare un’occhiata alla campagna; e il marchese si degnava di attaccar discorso con loro; e li interrogava, e dava consigli. E se c’era qualcuno che osava di fargli osservare che si era fatto sempre così, da Adamo in poi e che era meglio continuare a far così, il marchese alzava la voce, lo investiva:

— Per questo siete sempre miserabili! Per questo la terra non frutta più! Avete paura di rompervi le braccia zappando a fondo il terreno? Gli fate un po’ di solletico a fior di pelle, e poi pretendete che i raccolti corrispondano! Eh, sì! Corrispondono al poco lavoro. E sarà ancora peggio!

Sembrava che stesse per azzuffarsi con qualcuno; lo sentivano fin da piè della collina coloro che tornavano dalla campagna e ne riconoscevano la voce: — Il marchese predica! — Ormai sapevano quasi tutti di che si trattava.

Durante l’estate, venivano lassù a prendere una boccata d’aria fresca anche parecchi galantuomini dal Casino, e il canonico Cipolla, dopo l’ufficio del Vespro nella chiesa di Sant’Isidoro. Ma il marchese