Pagina:Il Marchese di Roccaverdina.djvu/78

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Ma neppure questa volta Titta sentì rispondersi niente; e frustò le mule, pensando a quel che sarebbe avvenuto a Margitello dove nessuno si attendeva l’arrivo del padrone.

Stormi di piccioni domestici, usciti alla pastura, si levavano a volo dai lati della carraia al rumore dei sonagli delle mule e delle ruote della carrozza, che ora correva su la ghiaia sparsa sul terreno a poca distanza dalla casina. Si scorgevano il ricinto della corte e le finestre chiuse, a traverso gli alberi di eucalitti che la circondavano da ogni parte.

Contrariamente alle previsioni di Titta, il massaio e i garzoni l’avevano passata liscia.

Il marchese avea visitato la dispensa, le stalle delle vacche, il fienile, la pagliera; aveva ispezionato minutamente gli aratri di nuovo modello fatti venire da Milano l’anno avanti, la cantina, le stanze di abitazione dei contadini, seguito dal massaio che gli andava dietro, timoroso di qualche lavata di capo; e non avea fiatato neppure quando allo stesso massaio era parso opportuno scusarsi per un oggetto fuori posto, per un ingombro che avrebbe dovuto essere evitato, per qualche arnese buttato là trascuratamente, guasto e non riparato.

Poi il marchese era salito, solo, nelle stanze superiori; e il massaio, dalla corte, gli vedeva spalancare le finestre, lo sentiva passare da una stanza all’altra, aprire e chiudere cassetti di tavolini e di