Pagina:Il Marchese di Roccaverdina.djvu/79

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cassettoni, armadii, spostare seggiole e sbattere usci. Due o tre volte, il marchese si era affacciato ora da una ora da un’altra finestra, quasi volesse chiamare qualcuno. Invece, avea dato lunghe occhiate lontano e attorno, per la campagna, o al cielo che sembrava di bronzo, limpido, senza un fiocco di nuvole da dieci mesi, infocato dal sole che bruciava come di piena estate.

Tre ore dopo, egli era disceso giù, aveva ordinato a Titta di riattaccare le mule, ed era ripartito senza dare nessuna disposizione, senza mostrarsi scontento nè soddisfatto.

A mezza strada della carraia di Margitello, là dov'era il pezzo di terreno di compare Santi Dimauro, che avea dovuto venderlo per forza, per evitarsi guai, il marchese, scorgendo dallo sportello il vecchio contadino seduto su un sasso rasente la siepe dei fichi d’India, coi gomiti appuntati su le ginocchia e il mento tra le mani, avea ordinato a Titta di fermare le mule.

Compare Santi rizzò la testa, e salutò il marchese sollevando con una mano la parte anteriore del berretto bianco, di cotone.

Voscenza benedica!

— Che fate qui? — gli domandò il marchese.

— Niente, eccellenza. Trovandomi al mulino, ho voluto dare uno sguardo....

— Rimpiangete ancora questi quattro sassi?