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IL BUON CUORE 221


E di liberi sensi ispiratrice
La Cristiana Croce; e se talora
Di caritade e di fraterni sensi
Furo oblïosi, alla divina Legge
Non imprecaro, stoltamente altieri,
degli errori con fortezza invitta
Soffrir la pena e tramandar l’esempio.


Ma di Dante il pensier, che in Dio s’appunta,
alla grandezza della patria aspira,
Che sogna libertade e la prepara,
Che fra note di cielo un generoso
Sdegno disfoga ed ai tiranni e a falsi
Della Chiesa Pastor, lupi rapaci,
Vibra roventi strali, a Te qual faro
Sempre rifulse e ti fu certa guida.
E l’arte eccelsa del divin Poeta,
Che, attraverso de’ secoli la fuga,
L’eco diffuse vigorosa e i cori
Prostrati aderse a più sublimi voli,
Nella civile poësia risorse
Del Vate di Bosisio, nel gagliardo
Insubre Spirto che ai tiranni indisse
Inesorabil guerra, e ancor nel mite
Sommo Lombardo, che di Cristo il verbo
la divina religion fe’ segno
Di sua Musa risorta e in molti cori
Freddi e impigriti ridestò la Fede,
Mentre primiero agi’ Itali gridava:
«Liberi non sarem, se non siam uni»,
E l’inno della patria alto intuonava.


Tu, santo Vecchio, il giovanile ingegno
Nel gran Lombardo ritemprasti, sempre
L’opra sublime e la profonda mente
Acuto penetrando, che ritorno
Fe’ al santo vero che del bello è padre;
Ma l’opra intanto sapiente e santa
Agl’infelici tu sacrasti, in cui
Luce non splende alle pupille spente,
E tu d’intellettual luce avvivasti.


Oh! al puro ritorni, al santo vero
L’arte divina che il pensier riveste,
Né fra sottili avvolgimenti abbui
Quanto l’umana fantasia si finge
O la mente ragiona: al bene intenda
Che luce è all’alma e ci solleva a Dio,
Fonte del Vero e di Bellezza eterna.
Alla risorta Patria, alla gran Madre
Di civiltade e di sovrani ingegni,
Dell’Alighieri l’inconcussa fede
Anco rifulga e Carità le apprenda,
Mentre la Grazia che, al saper congiunta,
Il gran Lombardo ricondusse a Dio,
Appuri i cuori e lor dischiuda il Cielo!


E quando a noi si chiuderà il presente
Per l’avvenir d’una seconda vita,
Possa il sogno allietar’l’estremo addio,
Che insiem con Dante ne sedusse il cuore,
E la libera Italia alfin saluti
L’alba rosata d’un felice giorno,
Che pace annunci fra la Patria e Dio!

Albiate, maggio 1910.

Ernesto Crespi.

UN ANGELO DI PACE


(Continuazione e fine, vedi n. 27).


Passavano così nella più invidiabile monotonia i giorni e i mesi, quando avvenne un fatto che doveva iniziare le prime difese della condotta di Mario in faccia a suo padre e aprire la strada al colpo di misericordia definitivo.

La signorina che, dal rispettivo padre e dall’architetto Eugenio Flori era destinata futura moglie di Mario, alle nozze di questo con Silvia Albani, restava libera e disponibile ancora; e ciò poteva anche essere poco male; piuttosto, la sposa promessa invano, dovette accorgersi con sua mortificazione che più nessuno altro si faceva innanzi, quasi lei fosse una cosa di rifiuto, una merce protestata.

Il padre a prendersela colle idee nuove dei giovinotti indipendenti o di difficile contentatura, se non anche viziosi, dappoco, che si spaventano innanzi al giogo matrimoniale; non riflettendo che, a creare certe diffidenze, certe ritrosie, la ripugnanza dei giovani dabbene pel matrimonio, concorrono in gran parte le fanciulle della giornata, colle loro teorie all’americana, colle loro strane esigenze di lusso, colla loro educazione in aperta opposizione ai doveri dello stato coniugale.

Però un partito riuscì ancora a trovarlo; s’intende, di quelli fatti apposta pel caso suo. Ma dopo il viaggio di nozze, non tutto luna di miele, neppur quello, si manifestò subito in entrambi gli sposi una sazietà reciproca, un tedio, un’antipatia marcatissima; quindi i primi dissensi, i primi litigi, le prime scenate volgaruccie anzichenò, e in seguito una separazione scandalosa, chiassosa di cui oltre ai vicini, dovettero occuparsi anche i giornali cittadini. La cronaca continuò per più giorni a fornire al lettore avido di scandali coniugali, dei bocconcini ghiotti e divertenti, che necessariamente doveano cadere sott’occhio anche alle persone serie. E anche l’architetto Eugenio Flori non tardò molto ad accorgersi del fattaccio della giornata, tuttavia tenendo per sè la lezione che ne scaturiva. Del resto nessuno lo sforzava a darsi torto. Ma pure continuando sul suo piede di guerra col figlio, aveva perduto molto dell’acredine dei primi mesi, non interrompeva più così bruscamente Carola quando accennava a far cadere il discorso su Mario; talvolta anzi per una sbadataggine che voleva parere inconscia, ascoltava, interrogava. Anzi, una volta fra le altre, quella sbadataggine durò più a lungo, e fu quando la contessa, colla massima naturalezza, e quasi fosse un tema molte volte trattato, parlò del lieto evento che fra non molto avrebbe rallegrato la casa di Mario. Già, Carola ad ogni costo sarebbe stata madrina, e non avrebbe permesso a nessuno di prendere quel posto che credeva spettarle; eccettuato un tale....

Solo davanti a tentativi evidenti di aggressione per indurlo a perdonare, solo davanti ad insinuazioni impertinenti, come questa, il signor architetto si destava e riprendeva la sua posizione, per quanto non più proprio al posto di prima; aveva già perduto terreno, e davanti ad un supremo assalto, condotto con tutte le regole dell’arte da espugnare le fortezze più ostinate c’era da ripromettersi una capitolazione completa.

E l’occasione si presentò più presto di quello che si sarebbe immaginato.

Si era di dicembre inoltrato; le frequenti nevicate di quell’anno avevano portato un’alternativa di freddi rigidi, intensi, e di rilasci, con umidità che finirono per alterare la salute di molti e inspirare serii timori. Fra le tante vittime dell’influenza che subito fece capolino menando stragi spietate, sia soltanto relegandole a letto