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E così è delineata nettamente la diversa attitudine degli uomini in rapporto a Cristo; parte impensierita della sua assenza e di tante conseguenze di essa, piangerà; parte distratta, idolatra dei sensi, disinteressata di Dio, ostile a Lui, per sensualità, per sacrilega rappresaglia, per soffocare il rimorso d’averla rotta col sopranaturale, si butterà al piacere.
La porzione dei buoni sarà dunque il gemere, il piangere. E come no? Volta che cogli occhi carnei o con quelli della fede si abbia veduto Gesù, l’impressione che se ne deve riportare non può che essere incancellabile. Ma spezzati quei rapporti per la dipartita materiale dalla terra, come nel caso degli Apostoli, o per il sottrarre che fa Gesù le gioie spirituali della sua amicizia, non può che seguirne uno strazio inenarrabile, come se la parte più vitale ci fosse stata tolta di schianto e portata via con Lui. In questo caso, i cento che restano non possono di certo compensare la perdita di quell’Uno che era tutto per l’anima vedovata di Lui. Primo motivo di dolore.
Poi, per conseguenza, sapendo grave la vita presente, e prolungata di troppo la dimora quaggiù (Salmo 119) nei mistici esuli come in Davide si acuirà il dolore della lontananza del Diletto, fino a raggiungere i confini dello spasimo. Altro motivo di dolore.
Fan pur gemere e piangere, lo spettacolo delle brutture del mondo, gli insolenti attacchi della tentazione, le trepide paure di cedere e restarne vinti, e l’infinite miserie della nostra caduta natura.
Inoltre si soffrirà e si piangerà dai buoni, per l’intollerabile situazione fatta loro dai cattivi contro i quali non è lecito combattere ad armi uguali, tener testa, perchè a quelli nessuna arma fa scrupolo e nessuna arte è ignota per apparire sempre nella legalità. I figli delle tenebre sono più astuti che i figli della luce (Luc. XVI, 8).
Non si soffrirà meno per il continuo spettacolo dell’offesa di Dio, che come al B. Curato d’Ars (Vita, v. 2, p. 210) così a tutte le anime sante riesce tortura insopportabile. Se il mondo umano per parte di Dio è tutto un poema di grazie, da parte degli uomini peccatori è tutto un canto infernale di colpe, la più orrenda sinfonia di abbominazione, degno preludio dell’ergastolo che inghiottisce le anime per sempre rovinate.
Ultimo motivo di dolore, la cecità ostinata di chi è fuori della vera Chiesa, che cagionò tristezza grande e continuo dolore al cuore di Paolo (ad Rom. IX, 2, 3) sino a fargli desiderare di essere anâtema pei suoi fratelli Israeliti, e non può affliggere meno in ogni tempo quanti bramano veder gli uomini un solo ovile sotto un solo Pastore.
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Ma questo non è tutto il peccato commesso dagli Apostoli nella circostanza di cui ci occupiamo, e con loro, chissà da quanti altri che in religione spostano facilmente le cose mettendo al luogo dei più austeri precetti un sentimentalismo morboso e, per giunta, tutto fatto d’ingiustizia; c’è dell’altro. Notate che l’espressione «vado al Padre» è priva di qualificazione personale e d’aggettivo possessivo, è generica parecchio. L’intenzione di Cristo era di accennare al Padre, come un fratello maggiore ne parlerebbe ai fratelli minori, giacchè Lui aveva da un pezzo inaugurato il singolare comunismo di far passare il suo divin Padre come Padre dei benamati discepoli. Quante volte nel Vangelo Gesù dice agli Apostoli: il Padre vostro? Parlando dei bisogni da esporre a Dio nella preghiera; del debito di compiere coraggiosamente in pubblico il bene, ecc. Gesù dice sempre «il vostro Padre sa che di questa cosa avete bisogno» dice «gli uomini vedano le vostre opere buone e glorifichino il vostro Padre che è nei cieli» ecc.
Ebbene il peccato di cui intendevamo far parola è questo per l’appunto, che il Nome più tenero e più venerando in terra e in cielo, non trovò nessuna eco nel cuore degli Apostoli, non svegliò nessun senso di pietà filiale, nonchè riuscire a pervaderli come scintilla elettrica, a farli trasalire di gioia, di speranza, di innamorato sospiro di raggiungerlo là dove il gioire è eterno e quelli che si amano non si disgiungono mai più; giacchè quell’espressione è anche sinonimo della celeste Patria.
Ma ahimè! Dio Padre è anche nostro Padre di noi tutti, cresciuti, nati da molti anni in casa sua; e noi pure siamo nella istessa condizione degli Apostoli, insensibili così che il tenero suono del nome paterno di Dio non trova più la via del nostro cuore, non ha più rispondenza in noi, non provoca il più fugace desiderio di riunirci a Lui. Che cosa mai ha snaturato così il nostro cuore?....
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Ma avete osservato nella nostra vita moderna un fatto analogo? Scaduto l’affetto nostro al Padre celeste, — non so se causa o conseguenza — è scaduto altrettanto l’affetto nostro al padre terreno; seguendo, per valerci di un paragone, la legge dei liquidi versati in vasi comunicanti tra di loro, che se si abbassano in uno, si abbassano parimenti nell’altro. Francamente, i tempi corrono fatali per i più santi e doverosi affetti; i vincoli di parentela e del sangue sono terribilmente rilasciati; il cuor nostro non palpita più pel domestico focolare, non lo desidera, lo ha disertato crudelmente e purtroppo ci siamo di molto avvicinati ai costumi di quegli animali che dopo l’allattamento si separano per sempre dai loro genitori per perdersi negli infiniti spazii del cielo o nelle sterminate lande della terra più non ricordando da chi ebbero vita e da chi furono più intensamente, sinceramente amati. Parte seconda della parabola di certe decantate ascensioni umane....
a. l. m.