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IL BUON CUORE 29


miglie valdostane; il loro linguaggio faceva parte del patrimonio avito, delle tradizioni e dei costumi popolari.

Ma quando, or son parecchi anni, per la prima volta parve al governo italiano che questa differenza di favella in una regione del Piemonte, suonasse quasi offesa al concetto dell’unità italiana e pensò di sopprimerla; i valdostani insorsero a difendere, con uno slancio violento, caldo e sincero il loro francese, accolto con tanta amarezza tre secoli prima! Strana psicologia d’un popolo che ama la sua terra, le sue tradizioni e la sua storia d’un amore inalterato e profondo: che da presso, da lontano, mai non cessa d’ammirare le superbe bellezze dei suoi monti giganti e il suo limpido cielo le acque scroscianti e pure come la loro fede. Altra gloria dei valdostani, l’amore all’Italia, alla cara patria comune, e alla Casa Sabauda, di cui si vantano d’essere i primi fedeli ed amorosi sudditi. Ancor ora, nelle insidiose terre tripoline, i bravi e gagliardi figli delle nostre Alpi si batterono da leoni al grido di «Viva Aosta, la veja! V’è infatti tutto un inno di poesia in quel fatidico grido!

Ora il Tibaldi vorrebbe, benchè penosamente, provare che «la douce langue maternelle» va diminuendo sparendo in Valle d’Aosta, e che l’italiano si diffonde per necessità e per fatalità.

Nelle scuole le due lingue, sono insegnate con egual cura; la nuova generazione più sveglia ed intelligente le impara facilmente: e l’emigrazione continua, i nuovi più frequenti contatti colle città moderne, l’affluire dei forestieri e dei villeggianti rendono naturalmente, comune l’uso dell’italiano. Ecco perchè il Tibaldi e molti altri vedono vicina la sostituzione radicale di questa nostra lingua all’antico francese. Ma un comitato è sorto in Aosta; un comitato vigile e solerte a proteggere, a diffondere, a sostenere il caro linguaggio avito; ed è bene, che i valdostani intendano, come accanto al dovere di conservare le loro tradizioni regionali, sia loro di utilità immensa il saper due lingue che li rende assai superiori agli altri valligiani in molte circostanze della vita. Imparino essi adunque con amore il dolce idioma gentile, non dimenticando nel contempo il linguaggio che fu caro ai loro padri; è la migliore delle soluzioni e la più utile pel loro bene!

A conservare, o meglio, a perpetuare queste tradizioni, usi e costumi valdostani, lavorò appunto il Tibaldi nelle sue belle e simpatiche «Veillées Valdótaines».

Sono racconti pieni di humour e di brio; scenette curiose; schizzi di figure tipiche e originali, escrizioni suggestive e vivacemente tratteggiate. — Un buon lavoro insomma, che riunendosi alla bella Storia della Valle d’Aosta, in tre volumi, ed a molti altri suoi lavori, diventano un geniale e profondo studio storico, di folklore, di leggendarie gesta e di gentili poemi rusticani.

Ciò che mosse l’A. e che lo fa instancabile nel suo letterario lavoro, è l’intenso amore ch’egli, da buon valdostano, porta e nobilmente manifesta per la cara terra che lo vide nascere, e che sa trovare le vie del cuore e dello spirito col fascino profondo delle cose belle, alte e pure.

C. Coggiola.

S. Francesco, uomo sociale

«I semplici sono armonici e completi in un modo ammirabile. Essi hanno l’apparenza, spesso, d’essere rinchiusi in stretti orizzonti. Senza sforzo, senza ragionamenti, senza discorsi, senza scienza, per le vie del cuore, dell’anima, della virtù, meglio ancora per la via
della santità, per l’unione col bene, coll’universale, coll’infinito, con Dio, essi hanno un intuito meraviglioso.... San Francesco d’Assisi rinunzia a tutto. Egli tiene un genere di vita ben particolare, strano. Eccolo posto come il più povero fra i poveri. Egli cammina col sajo e a piedi nudi. Nessuno ha lo spirito meno ristretto, meno esclusivo, l’anima più aperta. Egli ama la natura, questo asceta e in qual modo profondo, ingenuo, affascinante! Egli esercita un’influenza sociale».

Queste parole di Ollé-Laprune, riassumono e illuminano l’azione che San Francesco d’Assisi ha esercitato sul mondo. Nessun santo ha unito in modo più perfetto la vita d’intimità con Dio e la vita d’apostolato in mezzo agli uomini; e, quest’esistenza così originale per la sua varietà, per gli aspetti così diversi e così ammalianti che solleva, è, in pari tempo, d’una unità, d’una semplicità, d’una limpidità incomparabile. Si potrebbe trovare in lui l’asceta, il contemplativo, il fondatore, il missionario, l’oratore, il poeta, il cavaliere; al nostro sguardo si offrirebbero delle abbondanti ricchezze, e scendendo in queste miniere opulente, non tarderemmo a scoprire un fondo immutabile d’un unico metallo.

Unità e varietà: sono gli elementi del bello. La bellezza di S. Francesco ha sedotto i nostri contemporanei? oppure il suo idealismo candido, la stia ingenua semplicità li hanno guadagnati pel contrasto della nostra civiltà materialistica e complicata? — Non possiamo rispondere con sicurezza a queste domande, ma dobbiamo constatare un fatto tuttavia, che cioè la figura di San Francesco si illumina di un’aureola, che ha sempre nuovi splendori. Non sono soltanto i preti e i religiosi, che cercano di tracciarla: cattolici protestanti, razionalisti s’arrestano davanti ad essa, con un atto di commozione e di sorpresa, e trovano, per dipingerla, gli accenti d’una sincera eloquenza. Noi, in quest’ora solenne che precede l’apertura della nostra sesta Settimana Sociale, vogliamo additare unicamente la missione sociale di San Francesco, e allora dovremo concludere che le idee, ch’egli a emesso, e le opere, ch’egli ha creato, nulla hanno perduto della giustizia e del bene, che le raccomandava sette secoli fa.

«L’amore m’ha messo in una fornace» egli canta nelle sue strofe ispirate. Noi tocchiamo il fondo dell’anima di San Francesco e scopriamo, insieme, la sorgente della sua influenza: il suo cuore ardeva d’amore, la sua vita fu un’eterna ebbrezza di amore divino. Quella fu la sua grande passione, tutta la sua santità, tutto il suo genio.

Quest’amore integro e candido gli fa vedere la natura intera, come opera divina, ed egli ne ama tutte le manifestazioni, anche le più umili. Nella scala degli esseri egli vede dei gradi, non delle brusche rotture. Si puù dire che egli riconduce tutto all’unità, e non è quello il compito dell’amore?

In seno ad una società divina, in mezzo ad uomini feroci, apparve Francesco. In mezzo a tutte le violenze di quel secolo, a tutte le sue minaccie, a tutti i suoi orrori, il terrore gravava sugli animi e la povera umanità, accecata in questo caos sanguinoso, non sapeva più dove posare il capo.

In quest’ora turbolenta ed aspra, San Francesco ricominciò l’opera di pacifico e insieme efficace lavoro di rinnovazione del mondo, apportando agli uomini tre virtù principali: la povertà, la carità e la dolcezza, e lasciando dietro di sè delle opere, tutte impregnate del suo spirito.

La povertà è il carattere principale e più originale del suo genio. L’idea fondamentale del Vangelo è la vanità dei beni terrestri, che distraggono l’uomo dal regno di Dio; e la prima parola caduta dalle labbra del Cristo è: Beati pauperes spiritu. San Francesco la intese. Però questa povertà, così austera, così umile,