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46 IL BUON CUORE


— Una parola ne val mille.

— Lei dunque non vuol cedere? — disse Csonàk, alzando la voce.

— Non cederò — rispose il mercante con fermezza.

— Allora... insomma? — riprese Csonàk rabbonendosi.

— Basta, ormai; lasciatemi in pace.

— Via, via; non ci lasciamo pigliar dall’ira. Se non vuole parlarmi, mi dia almeno la mano.

Il negoziante stese la mano al contadino.

Tutto allegro, massaro Csonàk la prese, esclamando:

— Come chi si disdice! Affare conchiuso!

Con misteriosa lentezza, si mise o sbottonare il corpetto, senza tuttavia torcer l’occhio dal cantuccio ov’era posta la falce venduta.

— Oh, ve’ — disse bruscamente: — mi pare che questa falce sia più curva e più piccola della mia!

Girò gli sguardi sospettosi su tutti i fattorini della bottega; poi afferrò la falce e la bilanciò con la mano.

— E’ un’altra falce — esclamò severamente. — Il diavolo mi porti, ma questa non è la mia!

E così dicendo, si pose a rinfilare i bottoni di piombo del corpetto.

— Come, non sarebbe la stessa falce? — chiese il mercante. — Andate; non mendicate pretesti, massaro Gergely: finirò col perdere la pazienza.

— Sì, ma sì... Eppure; perchè il Diavolo mi ha fatto uscire di qui? E’ colpa mia? Che farci adesso?

— Ma se dico che è la stessa falce!

— La stessa? E io, gli occhi non ce li ho anch’io in fronte?

Passò il pollice sulla lama, la piegò sul ginocchio, picchiò col dito, la portò sulla via, la fece ancor suonare sul marciapiede, vi soffiò su, la brandì per l’aria sibilante e rientrò nella bottega con l’andatura di una anitra sciancata.

— Non è la stessa falce! Per questa, io non posso dare più di un fiorino e sessanta...

— Non tante ciarle! Se la falce non vi piace, eccovele tutte; pigliatene un’altra.

— Non sarò tanto balordo da darmi tanta pena. Rassegnamoci a questa; ma lei mi toglierà la differenza....

— Basta!

— Allora... come mai? Lei mi farebbe pagare la differenza e io ci rimetterei?... Avrebbe lei cuore....

— Pagate, senza tante storie....

— Bene — esclamò massaro Gergely Csonàk in tono amaro. — D’accordo; ma, almeno, dividiamo la differenza; non voglio aver rimorsi. Dividiamo i quaranta «Kreuzer».

— Non posso dividere.

— Ebbene; eccole il suo danaro! Prenda!

E prese di nuovo a sbottonarsi il corpetto. Profondò a gran pena la mano in fondo alla tasca interna, vi prese il biglietto di un fiorino e lo dette al mercante.

— Voglio subito il resto della somma — disse costui.

Dalla tasca esterna del corpetto, Csonàk trasse un pezzo di venti Kreuzer e da un’altra tasca un pezzo di quattro Kreuzer....

Ma cos’è cotesto? Sono appena ventiquattro....

Csonàk sprofondò ancora la mano nella tasca delle brache, ove afferrò trentatrè Kreuzer.

— Ventiquattro e trentatrè fanno cinquantasette.... Quanto le si deve ancora?

— Ancora trentatrè Kreuzer — disse il mercante.

— Si — rispose Csonàk in aria contrita — ma credo di non averli.

E dicendo quelle parole, spiava in aria di compunzione la faccia del mercante.

— Via... Vale a dire che... Aspetti, aspetti.... Dove li hai messi, caro? Ove si son cacciati, compare?... Ma guarda!... Ecco; nel fazzoletto.

E davvero un pezzo di venti Kreuzer era annodato in una cocca del fazzoletto azzurro.

— E’ l’ultimo Kreuzer, unico caro — disse pian piano. Dove non è niente, il diavolo perde il dente.

— Ancora tredici Kreuzer — pretese il mercante.

— E via! Io non ho avuto la falce che volevo, prima di tutto, e poi, poi, io non ho più un centesimo, perchè ho lasciato il portafoglio nella manica della mia giubba... Lei non vorrà ch’io corra tanto lontano per così poco... La pagherò un’altra volta....

— No; io voglio tutta la somma, o tornerete; la falce non volerà via di qui....

Allora Goriok scoppiò in voci di sdegno:

— Vedete un po’ che credito è il mio! Mio padre e mio nonno eran tutti onorevolmente conosciuti. Io non voglio pietà di nessuno! Non son mica uscito da un letamaio. Gettategli, compare, i tredici Kreuzer!

E, sdegnato, afferrò la falce, dicendo:

— Andiamo, compare!

Sulla soglia della bottega, si volse indietro con occhi furbi, alzò le spalle e facendo brillare la falce ai raggi del sole, gridò con voce sonora:

— Ora son io che la dico a lei: questa era la sua falce migliore.... Le altre non valgono un cavolo!...

(Dall’ungherese di Kálmàn Mikszath.

LA COSCIENZA

Chi l’è che sa spiegamm in pocch paroll,
Cosa l’è la coscienza che gh’emm dent;
Ma la vera coscienza, senza moli,
E minga Tacila ai adattament?


Intant bisogna minga avegh già froll,
Tutt peli che gha rapport col sentiment.
In quanto pceu a spiegalla in pocch paroll,
Siccome ghe concor tanti element,


L’è propi minga fagli; ma però,
Come la senti mi, la disi giò
La coscienza l’è donca on gran controll,


Profondament moral, che sbaglia no
E l’è insti pront, che quand te diset: sì,
Per on quaicoss de brutt, lu’ l dis: Oibò!

Federico Bussi.