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366 IL BUON CUORE


Viene a noi — nelle prossime festività religiose — benedicendo e confortando gli oppressi, i derelitti, i desolati a portare la pace: Lui solo la possiede e la dona.

Il mondo no. Esso ci invita al sollazzo, al piacere, alle passioni. Più in là d’un’allegria — non sempre degna dell’uomo — non vede... il disgraziato! Ma Gesù che conosce la pace, se non imbandisce la tavola del piacere, attraverso la Croce e la mortificazione dei sensi, in compenso largisce all’anima una quiete ed un contento che toglie tutto l’amaro dell’inevitabile sacrificio.

Oh! dite — diceva il profeta alla figlia di Sion che a lei viene il re mansueto...

Oh! io ripeto alla novella, più cara e gentil figlia di Sion — l’anime cristiane, — che è prossima la venuta, l’apparizione del re mansueto.

Togliete le vesti antiche — le viete idee, desideri, voglie, debolezze — toglietele: inghirlandate il capo delle verdi fronde degli alberi: gridate osanna a chi ci viene nel nome del Signore a darci la vita, la gioia, la pace!

R. B.

Educazione ed Istruzione


Il Valore del Martirio

(Dal Corriere d’Italia).


La prima questione che si presenti a chi contempli nella integrità del quadro storico, il martirio, è — sembra impossibile — una questione di parole. L’originalità divina del fatto nuovo che col Cristianesimo si pone, prorompendo, non solo suscita una meraviglia di stupore e di sgomento nel mondo degli spiriti, ma porta pure un soffio di rivoluzione nel mondo delle parole: e una parola, sopratutte, è presa, costretta, accampata dalla realtà novissima che è indetta a significare.

Martus — testimone — un vocabolo che non ricorre quasi mai nella stessa letteratura sacra che precede il Vangelo e che sta a designare l’atto indifferente e come impersonale di colui che osserva, dello spettatore: questa parola è trafitta dalla bellezza di una nuova anima tragica, è chiamata a significare e a custodire nella immutata umiltà delle sue proprie fibre la violenza divina di un prodigio onde martire appare colui che rende col sangue e col sangue di sè stesso, la suprema testimonianza non solo di quanto egli vede, ancora, immutabilmente, nell’anima, nella luce dell’eterno.

«Noi non possiamo — dichiarano Pietro e Giovanni innanzi ai Pontefici — non dire ciò che abbiamo inteso».

L’originalità dell’evento donde il martirio trae la magnificenza della sua anima nuova sta tutta nella umiltà di questa testimonianza: hanno veduto, hanno
inteso; ma la semplice percezione sensibile non resta inerte nello spirito, un empito di vitalità la fa vibrante di un desiderio che non conosce esitanze, che non teme coercizioni; essi non possono non dire: la percezione si tramuta in visione, la visione in parola, la parola in inno. L’evento al quale essi iianno assistito s’è avverato nella visibile pienezza della storia, in mezzo agli uomini,

a miracol mostrare,

ma nella storia non s’esaurisce, la storia non lo dissecca nella gelida compostezza del documento: esso è del passato, ma il passato non lo possiede: il fatto cristiano che i martiri di tutti i tempi, intendono testimoniare secondo la continuità di una serie di generazioni che non soffre interruzione dagli apostoli a noi è un fatto divino.

Ed in questo, il valore storico e il valore ideale del martirio cristiano: «Martirio» non s’ha se non quando si ponga testimonianza di un fatto: e solo i confessori di Cristo affermano, colla verità, la realtà altissima di un fatto storico, il fatto cristiano, che è ragione e luce alla loro fede: non solo asseriscono delle «idee» ma rendono testimonianza ad una «storia»: e per essa — secondo la dura espressione di Biagio Pascal — «si fanno sgozzare».

Martirio, dunque, non v’è, nella genuina significazione del termine, se non coll’avvento evangelico: la parola antica — martys — resta inerte e come morta finchè l’annuncio divino non le pone in cuore — nella maturità dei tempi — il prodigio di un’anima. Ma non è solo secondo questa valutazione storica — illustrata limpidamente da Paul Allard — che il martirio appare un’«esperienza» originalmente cristiana: è anche secondo valutazioni psicologiche ed ideali che non risultano meno feconde. Perchè il cristiano, che pure affronta con serenità purissima, la prova suprema non è «educato» alla morte, quanto, sopratutto, alla vita: anche nei tre secoli di sangue, santificati dalla persecuzione, quando la minaccia terribile trema ininterrottamente sul suo capo, egli sa che il mandato divino se gli insegna a morire, fortemente, quando la minaccia oscura lo raggiunge, gli impone sopra ogni cosa, incondizionatamente, di vivere e di vivere operosamente, fecondamente: l’accettazione docile della morte violenta non deve attenuare, agli occhi di lui, il valore altissimo dell’ora che Iddio ci ha dato per lavorare.

Il martire, questo sereno innamorato della morte, non è un dispregiatore della vita: a lui non conviene la meditata impassibilità onde lo stoico recide le sue proprie vene; nè l’esaltazione pugnace che getta il soldato a cercare, contro il suo proprio petto, il ferro nemico: il martire è un forte, senza essere un insensibile, è un entusiasta e non è nè un fanatico nè un invasato.

Non il pessimismo amaro del filosofo, per il quale la morte consapevolmente voluta e il termine conclusivo della logica del nulla; il gesto di pallida signoria contro l’impero inesorabile del fato e, sopratutto, l’epilogo di tutta una paziente ascesi della mor-