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IL BUON CUORE 367


te, di una perfetta pedagogia dell’estinguimento: lentamente, di giorno in giorno, lo stoico ha spezzato le fila che lo ricongiungono alla vita; ha reciso le propaggini sottili onde l’anima nostra si risveglia trepidando, sorella e si riconosce avvinta — attraverso al dolore e alla gioia — in vivi e reali vincoli di amore: non più gioisce, egli, non più dolora: la fraternità che egli va predicando resta — come certo loquace umanitarismo di tempi recenti — un giuoco indecifrabile di dialettica filosofica: prima di morire esangue egli è già morto l’atto fisico sussegue e suggella uno stato d’animo profondamente sperimentato: adempie una volontà di morire che è riuscita ad impossessarsi, sovranamente, di tutto l’essere, estinguendo quell’estremo cozzar di contrasti che — nei timori, nelle speranze, nei desideri — fa della morte d’un uomo un’agonia.

La morte del martire, insomma, non è il meditato adempimento di una dialettica concentrata nel nulla: è un atto di entusiasmo: e la sua dialettica è la dialettica del tutto e la sua logica è la logica di Dio.

Lo stoico è l’ultimo gettone di una stirpe morente: muore con lui tutta una gente, tutta una storia, sullo sfacelo che corrode una civiltà imperiale egli getta la sfida grande ed imbelle della sua amarezza: sotto la impeccabile signorilità del suo gesto trema, ghignando, la disperazione di un mondo: e sulle cose che gli muoiono d’attorno egli, morendo, con esse, pronuncia la parola che è la loro e la sua propria condanna: nulla. Il cristiano, invece è il figlio di una gente nuova: un amore lo avvince al cielo e attraverso il cielo, alla terra: un regno di conquista lo chiama alle durezze e agli splendori di una milizia: se un mondo agonizza, nuove terre e nuovi cieli — a mille a mille — s’aprono all’anima sitibonda: e terre e cieli batte il presagio dell’annuncio divino: «Andate e predicate». Trasale nel cuore di lui la speranza di un Dio: la parola rivelatrice della sua vita non è: nulla; è: tutto.

Nessun verace vincolo di amore egli ha reciso: egli conosce tutte le tenerezze pure degli affetti familiari, tutte le effusioni della fraternità gli sgomenti di tutte le speranze turbano il suo cuore: egli è creatura squisitamente umana e perfettamente amante: sa gioire, sa piangere; che più?

Il cammino della morte, se è per lui un tripudio di letizia in Dio, è pure un tormento senza nome: egli di null’altro è accusato se non di essere cristiano: non ha colpe da espiare, non ha reati di che rispondere: la vita e la morte tremano, per lui, nell’attimo di una parola, nella luce di un gesto: basta che egli rinneghi Cristo, che alla domanda giudiziale — Sei tu cristiano — opponga un mónosillabo — no — per, essere reintegrato nella pienezza dei suoi diritti, per meritare intiera la sua libertà.

La singolarità tragica di questa situazione giunge a sbigottire gli stessi giudici, a scompigliare a invertire le stesse finalità e gli stessi modi della procedura penale: la tortura che ha, normalmente, il compito di eccitare il colpevole alla confessione dei suoi delitti, si tramuta, innanzi al martire in una ambigua e ter-
ribile suggestione di libertà: egli non deve confessare le sue proprie convinzioni — che la sua fede è già riconosciuta — deve anzi rinnegare, deve, sotto la pressura inesorabile del dolore — chiudere gli occhi esperti al prodigio che li ha percossi. Non alla morte induce, così, lo strazio amaro, ma, tremendamente, alla vita: non a condanna ma a liberazione: il tormento, stringendo, invoca alla vittima per la vittima, la grazia della vita: l’effusione di una disperata pietà umana sembra intenerire le asprezze atroci del cilizio d’acciaio e del ferro incandescente.

(Continua).

Nob. Marianna Caimi

cieca.


Lunedì, nella Chiesa di S. Fedele, si fecero solenni funerali alla Nobile Signora Marianna Caimi. Precedeva il feretro una schiera di allievi dell’Istituto dei Ciechi, convenuti a dare l’estremo tributo di ricordo e di affetto alla loro antica compagna.

Divenuta cieca nei primi anni, la Caimi venne collocata, per esservi istruita, nell’Istituto dei Ciechi della nostra città, e vi rimase fino a corso finito della sua istruzione.

Rientrata in famiglia, poteva godere di tutti gli agi di una casa signorile; donzella al suo particolare servizio, campagna in autunno; eppure dopo poco tempo chiese ed ottenne di rientrare a pagamento nell’Asilo Mondolfo; e richiesta di questa sua risoluzione, dava questa caratteristica risposta: Fuori io sentivo di essere un’eccezione; qui sono al mio posto; fuori, in mezzo agli altri che facevano quello che ío non poteva fare, sentivo il peso di essere cieca; qui, in mezzo alle mie compagne, dove tutto è fatto e preparato per noi, sento le gioie della comunanza e non sento le privazioni della vita.

E sarebbe sempre rimasta nell’Istituto, se un malessere cronico non l’avesse costretta a rientrare in famiglia. Passò gli ultimi anni inferma, conservando sempre pel suo Istituto dolce ricordo e affezione. Un interesse speciale provava pei piccoli bambini dell’Asilo Infantile, che andava a trovare talvolta, e pei quali i fratelli premorti avevano disposto uno speciale legato.

Era buona, era mite, e Dio certo le avrà preparato in cielo un premio corrispondente alla sua virtù e alla sua sventura. Venne pure lunedì portato al Cimitero il Sig. Carlo Tolomei, morto improvvisamente, padre della cieca Pia Tolomei, che pubblica, a grande vantaggio de’ suoi compagni, una gazzetta musicale braille. Il suo lutto fu sentito come lutto loro dalle compagne e dai compagni dell’Istituto.

L. V.

Per l’Asilo Convitto Luigi Vitali pei bambini ciechi

OBLAZIONI.

Clementina Mina Beltrami, per il compleanno di G. C., 7 dicembre 1912|||
L. 30.—
Contessa Antonietta Busca Sola, N. 27 cappucci per giardino.|||