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350 IL BUON CUORE


compianto per l’uomo da lui venerato e tanto provato dai dolori.

Nel 1881 ricorrendo il suo giubileo sacerdotale, clero e popolo con uno slancio unanime gli apparecchiarono solenni festeggiamenti ai quali si associavano Leone XIII, molti cardinali, l’episcopato lombardo e moltissimi vescovi italiani e stranieri.

Dalla Corte di Savoia egli venne insignito nel 1887 del gran Collare dell’Annunziata. La cerimoia del conferimento venne compiuta nel salone dell’Arcivescovado, per mano del generale Taffini per incarico di Re Umberto.

Leone XIII lo aveva carissimo, lo stimava assai e lo avrebbe elevato alla porpora, se date le condizioni particolari dei tempi, non avesse creduto più opportuno che mons. Di Calabiana rimanesse insignito delle prerogative sabaude.

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Venuto a reggere le sorti spirituali della vasta archidiocesi in tempi difficilissimi, tra dissensioni acerrime nelle file stesse del clero, egli seppe con un tatto finissimo, con la dignità dell’aspetto e delle opere, con la dolcezza dell’anima evangelica e con la inflessibilità adamantina di un forte carattere raccogliere attorno a sè il clero, conciliarsene stima, affetto ed obbedienza. Il suo governo spirituale potrebbe essere riassunto in questa formula: il minor spiegamento possibile di autorità per un più largo effetto in ogni impresa. All’imposizione disciplinare preferiva le vie della persuasione e della carità; quando però l’intervento della sua autorità si rendeva necessario, la sua fibra resisteva a ogni difficoltà contraria, inflessibile, inespugnabile. Buon conoscitore di uomini sapeva vagliare i meriti degli uni e a suo tempo riconoscerli; non si induceva per nessun conto a favorire chi ne fosse indegno. Dalla pietà ferventissima in lui ritraeva luce nel difficile ministero e conforto nelle amarezze delle quali non fu esente il suo ministero.

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Dopo il giubileo sacerdotale declinò. La sua robusta salute venne minata da un lento malore, che si protrasse alternando crisi e miglioramenti per dodici anni, finchè il 23 ottobre 1893. tra il cordoglio generale lo spense dopo ch’egli ebbe ricevuto con indicibile fervore i conforti religiosi e fatta la sua professione di fede.

L’ultima pastorale di mons. Calabiana, fu la divulgazione dell’enciclica del S. Padre sulla divozione del S. Rosario.

Ma l’atto più importante che chiuse lo splendido suo episcopato è stato il ripristino della facoltà teologica Pontificia nel Seminario Maggiore di Milano, del quale l’Arcivescovo di Milano è e sarà per diritto il gran Cancelliere. Nulla di meglio: Mons. Calabiana desiderava che coronare il proprio governo spirituale della Diocesi di Milano con un solenne attestato alla perfetta unione della Chiesa ambrosiana colla cattedra di San Pietro.

E Monsignore chiuse gli occhi nel bacio del Signo-
re colla benedizione di Leone XIII, ch’Egli ebbe appena la forza di chiamare «grazia speciale».

Tra i molti accorsi al capezzale dell’illustre prelato morente vi fu il Re Umberto venuto appositamente dalla sua villa di Monza. Il Sovrano alla vista del grande amico nelle strette dell’agonia si mostrò visibilmente commosso.

La sua salma, vestita degli abiti pontificali, venne esposta nella cappella arcivescovile e per quattro giorni il popolo di Milano sfilò ininterrottamente davanti alla sua bara per deporre l’omaggio delle lagrime e delle preghiere.

I solenni funerali ebbero luogo il giorno 28 ottobre. Le autorità governative, le rappresentanze della Corte, del Senato, della Camera, della magistratura, del comune col numerosissírno clero diocesano e con una onda di popolo componevano il corteo imponentissimo.

In Duomo, parato a lutto, durante le esequie, mons. Ballerini, antecessore del defunto sulla cattedra milanese ed allora patriarca d’Alessandria, tessè con parole affettuose l’elogio funebre del compianto Arcivescovo.


RODOLFO SESSA


Il giorno 28 ottobre scorso, dopo molti mesi di sofferenze incredibili, si spegneva nella sua magnifica villa di Cremella il Cav. Rodolfo Sessa, lasciando nella desolazione più straziante la consorte signora Anna Fumagalh. i fratelli Giuseppe e Francesco, la sorella Maria Gnecchi, le cognate e i numerosi nipoti e amici.

Aveva solo 54 anni ed era nella pienezza della sua agile e fresca virilità.

Rodolfo Sessa era il tipo perfetto del gentiluomo cristiano. Era una figura che, veduta una volta, non si dimenticava più. E chi non ricorda la bella persona alta e snella, dalle linee regolari e di una spiccata bellezza, dalla magnifica barba fluente precocemente imbianchita, mentre i capelli avevano conservato il nero dell’età giovanile? Quell’esterno così lindo e armonico era l’indice di una grande armonia interiore, di una bontà profonda e gentile, che informò tutta la sua esistenza.

Alla sua adorata Annetta portò il raro profumo di una giovinezza illibata, perchè ebbe sempre un istintivo abborrimento di tutto ciò che contamina: l’amore, fatto di virtù e di stima profonda e reciproca, avvinse le due esistenze in una perfetta fusione di anime che durò inalterata e invidiabile fino all’ultimo.

Egli ebbe un’anima squisitamente sensibile a tutto ciò che è ordine, armonia, bellezza. Come sentì per esperienza interiore le ineffabili armonie della virtù, che è bellezza morale, sentiva e gustava indicibilmente le bellezze della natura e dell’arte. Quindi un senso spontaneo e profondo della compostezza e dell’ordine in tutte le cose e in tutti i rapporti della vita. Questa delicata e squisita sensibilità, avvalorata da