Pagina:Il buon cuore - Anno XIII, n. 10 - 7 marzo 1914.pdf/2

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massima parte le bellezze di questo canto rimangono tuttavia un’incognita: nè alcuno peranco ha saputo darcene — come in generale si vuole dire pel Poema — un commento pieno e perfetto. A fare l’escgesi dantesca non basterà mai — com’io ho propugnato più volte -- un uomo per,quanto inegnoso e dotto: a spiegare Dante si rende indispensabile un’accolta di uomini profondamente versati nelle singole materie, che l’Alighieri — unico esempio al mondo — ha posseduto in sommo grado. Nel caso particolare dell’inno a S. Francesco — oltre la dichiarazione del polisenso — il commento dovrebbe illustrare le varie forme letterarie e le varie scienze dal Poeta toccate. Sembrerà a taluni che io metta troppo legna al fuoco, e a qualche altro darò materia da ridere. Eppure è così: sotto ogni aspetto, secondo, il mio proposto, si potrebbe fare un’interpretazione ben lunga e importantissima: e senza considerare il Poema sacro dai vari lati, dirò con Giovanni Pascoli, non si arriverà mai a comprenderlo ed a gustarlo interamente. Come abbiamo detto dianzi, Dante non poteva scegliere forma migliore dell’inno per celebrare le glorie di S. Francesco. Quasi indubbiamente questi fu il primo canto che risuonò sulle labbra dell’uomo meravigliato e riconoscente a Dio e a’ celesti, e certo per l’altissimo suo argomento rimase sempre il canto più lirico e più sublime che si usasse presso tutti i popoli. A Dante si avveniva bene ancora la terza rima, perchè questa generalmente-è la forma di cui si servirono gl’italiani nella lirica sacra; - come gli si avveniva bene rappresentare San Francesco sotto il mistico aspetto di amante riamato dalla Povertà, perchè non essendo l’inno che una significazione speciale dell’ode e canzone, ne segue l’indole che prevalentemente tratta argomenti d’amore. L’inno deve avere concetti forti, sublimi, e soavemente affettuosi, stile rapido, immaginoso ed animato assai: inoltre dev’essere breve, perchè i grandi affetti durano poco, possedere più che mostrare unità, con parole nuove e ben appropriati latinismi e trapassi d’idee, detti comunemente voli, che hanno la virtù di farc ascendere l’arte alle cime eccelse della perfezione. Chi ben osservi, tutte queste qualità si trovano nell’inno dantesco. Nel solo terzetto, che noi prendiamo ad esaminare, sono tali e tante bellezze, clie parrà incredibile a chi è profano in siffatto" genere di studi. Il Poeta, che toglie a cantare un fatto storico, deve curare grandemente laabrevità, ma far spiccare nello stesso tempo i particolari più importanti di questo fatto. Ebbene nell’inno a S. Francesco, Dante non poteva tralasciare la Verna, ove il Santo dimorò per vario tempo e ricevette le Stimmate. Dopo aver ricordati i gesti precedenti della vita di San Francesco, dalla Siria dov’egli Negia presenza del Soldan superbo Predicò Cristo trasporta il Serafico Padre sul monte della Verna.

E’ un tratto/ di arte sapientissimo, è uno de’ voli più sublimi ch’io abbia mai veduti nella Divina Commedia. In tre versi ci descrive la natura geografica geologica del luogo e il fatto prodigioso delle Stimmate, lasciando alla nostra mente il pascolo di tante altissime considerazioni, che sgorgano naturalmente dal fatto medesimo. Si poteva dire di più in un terzetto! E con che precisione, con che chiarezza, con che efficacia da non trovare paragone! Che stupenda ipptiposi! Un dotto:francescano, il P. Adolfo Martini; direttore della Verna, mi ha domandato, se Dante abbia visto il Calvario italiano. Ho pensato un poco, poi ho detto: sì certamente, Dante ha visto la Verna! Egli non poteva descriverla con parola sì scultoria se non l’aveva veduta. Veramente tutti i luoghi vorrebbero l’onore di avere data ospitalità a Dante; ma per alcuni da documenti sincroni e sigillati e da descrizioni che risentono la personale presenza del Poeta, non si può mettere in dubbio. Quanto alla Verna, da nessun scrittore autorevole ho visto ventilata la questione: ma io credo di non andare lungi dal vero nell’ammettere senza dubbio che Dante ha veduto questo famoso monte. E infatti, se Dante non l’avesse veduto, come poteva farcene una descrizione così precisa e viva? Non si possono ritrarre persone e luoghi in un modo così animato, se non si sono prima ben visti e se non hanno commosgo profondamente la nostra immaginazione. E storicamente la prova infallibile del fatto l’abbiamo da ciò che Dante da giovine fu alla battaglia di Campaldino, e al tempo dell’esilio percorse più volte il Casentino, come si ha da’ suoi biografi, ed incontestabilmente poi dalle sue lettere, che scrive dalle falde della Falterona. Dante vide àdunque certamente più volte la Verna; e francescano di mente di cuore, probabilissimamente anche terziario, al cospetto del sacro monte si sentì fremere della più alta ammirazione e venerazione. Ma Dante fu anche alla Verna? La cosa potrebbe essere materia di molti studi e dare buone risultanze di probabilità. Certamente, con molta più ragionevolezza di Polenta, di cui si è parlato tanto per la famosa ode del Carducci, si potrebbe esclamare almeno in tono enfatico: Dante pregò alla Verna! Senza dubbio però la vista della Verna ferì la fantasia del Poeta a tal punto, che la descrisse in un modo al tutto vivo e scultorio. Tutte le parole e tutti i concetti di questa mirabile terzina sono espressi con inarrivabile proprietà ed originalitàNel crudo sasso intra Tevere ed Arno. — Il monte Alvernia è chiamato crudo, non solo, secondo me, come seccamente espongono i commentatori, perchè è aspro, ma anche perchè rispetto a S. Francesco (per metonimia) vuolsi dire, crudele in quanto che ivi il Serafico Patriarca ricevette le dolorose Stimmate. — Sasso nel linguaggio dantesco significa montagna; e il Poeta l’appropria in particolare all’Appennino Tosco-Emiliano (Par. XXI, 106). — Ai no