Pagina:Il buon cuore - Anno XIII, n. 14 - 4 aprile 1914.pdf/2

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questa; ed è, forse nel fatto che furono scritte per rimanere ignorate che devono essere pubblicate, conosciute, diffuse. E và, piccolo libro e fa il tuo bene e compi la tua missione.

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Ma lo voglio anticipare, a chi mi legge, una gioia. Ripeto, questo non è un libro che si deve solamente leggere, è piuttosto un libro che deve essere meditato; uno di quei libri, che ci accompagnano dovunque, che si aprono spesso, che si leggono e si rileggono a riga a riga, come si beve a sorsi una bevanda squisita; libri che sono i migliori vade-mecum delle nostre anime, oggi, più Che mai, assetate di bene, di fede, di parole semplici e sublimi... Queste di Giulio Tarra, sono tali. Apriamo a caso il piccolo libro. Leggiamo: a V’ha ora i principi della morale qualche sentenza mite, modesta nel suo aspetto, quanto sublime nella sua sostanza, dalla cui osservanza risulta il criterio di tutta la morale stessa. L’obbedienza è il migliore dei sacrifici — il compimento del proprio dovere, un’orazione l’annegazione dell’istinto, la più valida ed efficace mortificazione — il rispetto alla virtù ed alla giustizia, il miglior culto di Dio — ed altri pochi. L’uomo invece tende a farsi legge e scrupolo di quei precetti che nella morale sono derivati e secondari, la cui esecuzione ha una maggiore esteriorità e che si fanno valutare da chi li’ osserva; e così anche nel fare il bene non vuol smettere dal sommo dei suoi incessante — l’amore, il compimento della legge — mali, che è l’orgoglio, e si concilia una religione ed una moralità che non rifuggono da transazioni, che ne distruggono la sostanza. Ma al proposito è necessario non illudersi; come non possiede la morale cattolica chi) crede di riservarla ad una professione tutta interna, così non l’ha chi crede di tacitarla con una professione tutta esterna: anzi questi hanno sui primi lo svantaggio, e ben fatale, di essere creduti dalla Società e da sè stessi in una Chiesa, da cui sono estranei; seguaci di un codice che li condanna». Ed ecco una sentenza tutta moderna, tutta nosgra, dei nostri tempi: Che cos’è il criterio, il buon senso, che pure nella vita è riconosciuto da tutti come il principale fra i doni? Esso è appunto iil contemperamento d’un retto sentire fisico-intellettuale-morale, da cui consegue, come risultato d’un triangolo perfetto, una forma di giudizio che corrisponde alla triplice natura del bello,,del vero e del buono. Un giudizio così `fatto è certamente retto, piacevole, utile, perchè per ogni riguardo è giusto, armonico, perfetto: esso, se da un lato implica la necessità d’un senso integro e colmo, dall’altro conferma quella di -una mente riflessiva e di una serena e ben illuminata coscienza per cui, come dovrà mancare di retto criterio chi è difettoso nel modo di sentire, verrà meno a tanto dono anche colui che, per quanto

perfetto nei sensi è turbato da passioni, da rimorso, da falsi principi, da perverse abitudini. Quindi lo studio spassionato della verità e l’esercizio della virtù, la coltura della pietà e della religione, sono la base, i preservativi, gli antidoti ed i formanti dell’istesso criterio, del vero buon’senso». E leggiamo ancora. Ecco l’educatore, ecco come educava — ed educa veramente — Giulio Tarra. a Condurre grado grado, dolcemente, senza violenza, per una via sempre ordinata e razionale a riconoscere e ad amare la legge: ecco il prógramma ch’io mi prefissi educando. — Mettere nel cuore del mio allievo una viva fede, una grande idea, un salutare timor di Dío e a Lui dirigere la sua mente e la sua volontà operante: ecco il mezzo unico, efficace ch’io mi proposi a compimento di tanto mandato. — In ogni altro fine trovai traviamento di educatori e di allievi; orgoglio e prepotenza, tirannia o noncuranza nei primi; finzione od impostura, malignità o tristezza nei secondi. — Ogni altro mezzo impellente o cattivo, lusinghiero o coercitivo lo rinvenni espressione piuttosto di passione nell’educatore, che di desiderio del bene dell’allievo e lo riconobbi a questo piuttosto di danno, che di vantaggio. L’ira, le minaccie, le percosse, le escandescenze, in una parola la reazione dell’animo dell’educatore contro il suo allievo, la riconobbi uno scandalo fatale, una vendetta, un mezzo di distacco fra edut cando ed educatore, fra entrambi e la legge. Compiansi, ogni giorno, educando, di non essere abbastanza educato e nelle volte convenni che la prima, l’unica condizione per poter guidare gli altri all’amor della legge e della virtù è quella d’aver la prima e di possedere la seconda, d’aver prima conoscenza di sè stesso e l’intiero dominio delle proprie passioni...». In questi scritti Giulio Tarra ha affidato anche un po’ delle sue amarezze, dei suoi sconforti ed un po’ anche delle sue gioie. Sono le gioie degli apostoli, dei sanfi, dei buoni. Chissà, dopo quale gioia, Gite lio Tarra scrisse così: «Ammirano molti o compatiscono come vittime quelli che sacrificano la loro vita per un’opera di beneficenza: e non sanno che tale è la soddisfazione morale del ben fare e: le segrete compiacenze della carità sono tale compenso, che a chi l’esercita torna di stupore e di compatimento la vita di chi non la conosce e non la pratica, di chi vive a sè stesso e alle povere aspirazioni, alle ristrette gioie della vita privata. Credetemi: il cuore non basta, le forze mancano, la vita è poco per f a’ re, sostenere, gustare una opera di pura carità pel prossimo». Ed altrove: a Vissi la mia vita fra gli sventura’ ti; ma li trovai più felici di molti avventurati, so’ lo perchè non erano malcontenti del loro stato, e co’ noscendolo, vivevano di rassegnazione e di sperar’za: fu questa per me una grande, una continua coo’ ferma della necessità, della opportunità della fede; fu la più grande lezione e_ forse la più utile, la 1)1 solenne ed efficace della mia vita».