Pagina:Il buon cuore - Anno XIII, n. 26 - 27 giugno 1914.pdf/3

Da Wikisource.

tentrionale, si curvavano sul miò tavolo e osservavano attoniti quel che io, lavorando alacremente sin nel cuore della notte, venivo operando. Nessuno aveva mai veduto alcunchè di simile, solo un soldato di Colonia raccontava che nel Duomo venivano scolpite figure, ma in pietra. Dalla cartella di Weimar io avevo scelto a modello, guidato felicemente dall’ingenito senso d’arte, una splendida incisione rappresentante l’annunzio della nascita di Cristo ai pastori. In capo a due mesi ebbi finito. Sparsasi pel vicinato la notizia fu un accorrere di gente da tutte le parti. I parenti di mia madre e i contadini del villaggio nativo non la finivano d’ammirare •e di esclamare: «Gustavo dovrebbe mettersi con uno scultore, egli ha la testa ben fornita!». Mio padre richiamò allora tutto il suo coraggio, prese il mio lavoro, lo nascose sotto il mantello militare, •e accompagnato da me si recò all’Albergo del Leon d’oro, dove si radunavano a mangiare gli ufficiali prussiani. Stretto nel vestito della prima comunione che quasi più non m’entrava, io vidi trepidando il legno scolpito passar di mano in mano, ma all’infuori dei soliti convenzionali «bellissimo! stupendo» nessuno, nemmeno il generale seppe esprimere un giudizio o dare un consiglio preciso. Eguale negativo risultato si ottenne coi professori del la vicina Università di Gottinga e col Borgomastro di Miinden. Danari per mandarmi a frequentare una scuola l’ammnistrazione non ne aveva, dichiarò quest’ultimo. Da nessun lato, insomma, il più fioco barlume di speranza! In preda alla mia crudele angoscia sedevo io dunque una sera curvo su la mia opera illuminata dai riflessi del crepuscolo, quando fu picchiato alla porta ed entrò- nella stanza domandando di vedere «ciò di cui tutti parlavano» il pastore della chiesa di San Biagio nel quartiere basso della città. La visita inattesa di quest’uomo sino allora sconosciuto fu la mia salvezza. Egli,esaminò attentamente il lavoro, s’informò delle mie dolorose peripezie e mi disse: «Un patrizio di Norimberga si trova di passaggio in Miinden: se vuoi, io gli affido il bassorilievo perohè lo mostri al direttore di quella scuola di belle arti». Io accettai con entusiasmo la proposta, e il buon uomo per farmi anche più contento, mi commise un crocifisso per l’altare della sua chiesa promettendomi in compenso tredici talleri. Con quale ansia io e i miei genitori attendevamo le notizie da Norimberga s’immagina. Finalmente queste notizie giunsero favorevoli. Il direttore della scuola,si dichiarava disposto a prendermi fra i suoi allievi! Non ho mai dimenticato ne potrò mai dimenticare il nebbioso mattino d’autunno in cui, con diciotto talleri in tasca e un orologio d’argento, partii da Miinden. Mio padre mi svegliò verso le sei, poi come fui vestito, mi condusse misteriosamente in giardino e mi disse: «Gustavo, io ho sotterrato qui il tuo Cristo. Il modello di creta del crocifisso che ti bisogna lasciare incompiuto non deve andare in pezzi. Nessuna mano deve toccarlo. Qui sotto il melo io l’ho nascosto, presso la panca che ti lavorasti con le tue mani e su la quali ti Piaceva tanto sedere».

Dirottamente piangendo io abbracciai il vecchio, e il proposito che in quell’attimo feci di corrispondere degnamente a tutte le sue cure e premure è stata la molla segreta d’ogni mio posteriore succeso. GIUSEPPE SACCONI. II / PASSEGGIATE LIBICHE

DA APOLLONIA A CIRENE ttl La collina dirupata selvaggia e quasi a picco sul mare che al viaggiatore impedisce la vista del fertile altipiano cirenaico da lunghe ore appariva al mio sguardo annoiato che distrattamente la seguiva dal castello di poppa del piroscafo. I marosi agitati dal maestrale s’infrangevano con ritmo uniforme contro la parete rocciosa, non offrendo in alcun sito una qualsiasi probabilità di approdo. Fu quindi con un senso di sollievo che vidi finalmente ritrarsi la collina per lasciare il posto ad una larga radura, sulla quale si aggruppano numerosi baraccamenti e rovine. Fra qualche ora sarei sbarcato a Marsa Susa, o meglio ad Apollonia.

Due nomi e due epoche In questi due nomi è racchiusa la storia di una città che costituì un tempo il più importante punto di sbarco della Cirenaica. Apollonia: il nome ampio, sonoro, sinonimo di quella magnifica e feconda pace rimana che seguiva ogni conquista: Marsa Susa: il nome aspro, ferrigno, racchiudente in sè una forza barbara, distruttrice, implacabile. Apollonia: lungo periodo di benessere e di commercio produttore; Marsa Susa: periodo oscuro di continua decadenza e di generale impoverimento. Un popolo di agricoltori e di commercianti scomparso per cedere il posto ad un popolo nomade, altrettanto prode a combattere, quanto incapace a fecondare il terreno; una città romana dagli edifici grandiosi, dal porto spazioso, distrutta per veder sorgere fra le sue rovine la città berbera, fatta di casupole basse, sprovvista di un porto sicuro, diroccato anch’esso e d’altronde ormai diventato inutile, dopo che Cirene — l’antica capitale della regione — di cui era lo sbocco naturale, era stata rasa al suolo e abbandonata per sempre. Il governo turco, colla sua,opera nefasta ha finito per trasformare la popolosa e ricca città in un miserabile villaggio. I cannoni della marina italiana colpendo Marsa Susa hanno trovato il loro più degno bersaglio in un mulino primitivo e l’hanno spaccato in mezzo con una granata ben diretta; le altre rozze catapecchie non avrebbero meritato nemmeno un’colpo di fucile. Ma Apollonia non è del tutto scomparsa. Con tutte le creazioni di Roma essa è immortale. Frammiste alle tende arabe vi sono colonne spezzate, capitelli finemente intarsiati, traccie numerose di ricche abitazioni: là ove oggi è difficile porre piede in terra a causa della mancanza di ripari che fronteggiano il mare perennemente agi