Pagina:Il canapajo di Girolamo Baruffaldi, Bologna 1741.djvu/124

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E pur non è don di sua mano al certo;
Sai tu di donde vegna? ed io pur sollo.
Siegui a calcar col tuo gramile, e intanto
La tua vicina, scossa una manata,
A chi stassi a la gramola la porga
Per ripulirla a l’ultima finezza.
Quelle due lingue, quelle due mascelle
Faran ben altro, che quel tuo grametto.
Chi ha più lingue in bocca, è un uom che vale
A star con tutti a tavola rotonda:
Ma chi ha più mascelle, non l’invidia
A tavola, al tinello, ed in cucina.
Sicchè la grama, a l’ultimo, è valente
A far ciò, che finor tu non facesti.
Vedi quel suo calcar, come conficca
E stritola ’l fastello, e seco quanti
V’ha stecchi grossi, tutti li sminuzza,
E poco men, che li riduce in polve,
E in quattro, o sei lisciate esce di lizza,
Ed il tiglio fa lucido, e ’l raffina?
Così fa chi i capei tiene in cultura;
(Cosa in oggi comune a gli uomin’anco:)
Un pettinel finissimo, e minuto
Fa ciò che far non puote il grossolano,
E pur, vedi ove l’attentato arriva!
E le lendini stana, ed i pidocchj:
Qui non ha fine lo scorticatojo.
Passato in altra mano il liscio tiglio,
E scosso nuovamente, ecco sottentra
Un’altr’arme a grattargli la cotenna,
Ed a darli così l’ultima purga.
Tienla la man villana, e rialzandola,
Ecco impugna un coltello, anzi un pugnale