Pagina:Il canapajo di Girolamo Baruffaldi, Bologna 1741.djvu/125

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Di legno sì, ma largo, e liscio, e d’ambe
Le coste sì sottil, che sembra spada,
E quindi con ragion spatola è detta.
Con questa il fascio tutto, che da pria
Sparnicciato n’uscì fuor de la grama,
E si frega, e si stende, e purga ancora
Da qualche avanzo de’ minuti stecchi;
E tal lustro ne nasce, che di prezzo,
E di credito, ovunque ella si mostri,
S’accresce la tua canape altrettanto,
Ch’io sto per dir, ritornerebbe al mondo,
Per lavorarla, Berta, se filasse.
Ma, se nol sai, convien, che cauto adopri
Questo estremo rimedio a tempo e a loco:
Se il tiglio è forte, e resistente al colpo,
Fa quell’uso che vuoi di questo legno,
Che a la fin poi ne rimarrai contento:
Ma s’è floscio, e sottile, allor deponlo,
Perchè danno gli arrechi, e non più ’l lucro
N’avrai, che già da pria ti promettea,
Non meno il suo candor, che la sua forza.
Ed ecco de la canape ridotto
Tutto il lavor sì faticoso al fine.
Il canavaccio anco svestir ti resta:
Questo, macero e asciutto, di leggieri
Spoglierailo, tirando a fil la scorza
Pel lungo de la canna, onde ben tosto
Nuda e bianca vedraila, e ne potrai
Far siepi, e zolfanelli ad ogni casa
Comuni, e usati per accender foco:
O pur ne farai serbo per allora,
Che in notte buja andrai pel vicinato,
In carnascial sonando il colascione ,