Pagina:Il canapajo di Girolamo Baruffaldi, Bologna 1741.djvu/59

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Romper de’ quel terren, su cui buttasti
Il seme, e in guisa profondar suo taglio,
Che tutto ’l ferro nel terren s’immerga.
Così ’l seme non men, che ’l fior di fime,
Comun tumulo avrà tutto in un colpo.
Ma fa, che gli occhj insiem de’ combattenti
Guardino sempre ’l suol, dov’è lo strazio,
Sicchè il seme quant’è tutto si copra
A forza d’un sottil taglio di marra,
Nè a l’aria un granel solo, a ciò che ’l cielo
Già destinollo, inutile rimanga.
Per far più lieve la comun fatica,
E invigorir, non che le braccia, il sangue,
Sien misti villanzoni, e villanelle
Innamorate di quel rozzo amore,
Ch’è sempre caldo, e qual caval nitrisce.
Canteranno costor le sue improvvise
Canzoni in mezzo del comun lavoro,
Questi intonando, o simili strambotti ,
Passati da la Nencia, e da la Beca
Fin ne le bocche ai villanelli nostri.
“Rossetta mia, io vo’ sabbato andare
“Infino a Cento a vender due somelle
“Di scheggie, che mi posi jeri a tagliare
“In mentre, che pascevan le vitelle.
“Procura ben ch’io ti possa arrecare,
“O se tu vuoi, ch’io ti compri covelle:
“Vuoi tu di terra Oriana un cartoccino,
“O di spilletti, o d’ agora un quattrino?
Fischj, urli, e strida s’alzeranno allora
De la brigata, che in amor pretende:
E la Rossetta, che di lui non arde,
(Di lui che ’l primo canticchiò strambotto)