Pagina:Il diamante di Paolino.djvu/13

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toni anneriti; guardò con una certa commozione la casa paterna che pareva un punto bianco in mezzo al verde cupo dei frutteti; lontano lontano, come la voce della mamma che gli si raccomandasse piangendo, giunse fino a lui il suono della campana parrocchiale, ma il nostro Paolino voltò le spalle al paesaggio, si tappò gli orecchi e giù, a precipizio per la china.

In capo a tre ore egli entrava in città.



Una volta arrivato, non seppe più qual direzione prendere. Teneva stretta in mano la sospirata gemma, è vero: ma, dopo tutto, non si desina nè si va a letto con una gemma. Mentre girondolava a caso, voltando gli occhi a destra e a sinista senza sapere dove battere il capo, vede un vecchino rimpresciuttito, vestito tutto di nero, che lo saluta sorridendo, ossia facendo una boccaccia spaventevole.

Le donnicciole di Montalvo, quando raccontano questa novella, giurano e spergiurano che quel vecchino era il diavolo. Ma chi lo può provare? Tanto più che quel vecchio non aveva alcuno di quei segni caratteristici per mezzo dei quali si riconosce un demonio di primo acchito, come il piè di gallo, la coda, le corna o gli occhi infiammati.

Quell’ometto, invece, aveva un aspetto decentissimo, bei modi e sguardo abbastanza onesto. Si avvicinò a Paolo col cappello in mano, gli domandò se, essendo forestiero, aveva bisogno della sua servitù e si offrì subito di condurlo in un albergo dove non ci andavano che «signori» o negoziantoni; poi, sempre camminandogli a fianco, si mostrò così gentile, così espansivo e intelligente, che Paolo non esitò più a confidargli il fine del suo viaggio.