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Ella entrò portando nella sopravveste e tra le braccia un gran fascio di rose rosee, bianche, gialle, vermiglie, brune. Alcune larghe e chiare, come quelle della Villa Pamphily, freschissime e tutte imperlate, avevano non so che di vitreo tra foglia e foglia; altre avevano petali densi e una dovizia di colore che faceva pensare alla celebrata magnificenza delle porpore d’Elisa e di Tiro; altre parevano pezzi di neve odorante e facevano venire una strana voglia di morderle e d’ingoiarle; altre erano di carne, veramente di carne, voluttuose come le più voluttuose forme d’un corpo di donna, con qualche sottile venatura. Le infinite gradazioni del rosso, dal cremisi violento al color disfatto della fragola matura, si mescevano alle più fini e quasi insensibili variazioni del bianco, dal candore della neve immacolata al colore indefinibile del latte appena munto, dell’ostia, della midolla d’una canna, dell’argento opaco, dell’alabastro, dell’opale.

― Oggi è festa ― ella disse, ridendo; e i fiori le coprivano il petto fin quasi alla gola.

― Grazie! Grazie! Grazie! ― ripeteva Andrea aiutandola a deporre il fascio sul tavolo, su i libri, su gli albi, su le custodie de’ disegni. ― Rosa rosarum!

Ella, poi che fu libera, adunò tutti i vasi sparsi per le stanze e si mise a riempirli di rose, componendo tanti singoli mazzi con una scelta che rivelava in lei un gusto raro, il gusto della gran convitatrice. Scegliendo e componendo, parlava di mille cose con quella sua gaja volubilità, quasi volesse compensarsi della parsimonia di