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― Siate savio ― ella soggiunse, un poco affannata, ravviandosi, con una gentile aria di cruccio.

Egli era rimasto sul divano e la guardava, muto.

Ella andò verso la parete, a fianco del caminetto, ove pendeva il piccolo specchio di Mona Amorrosisca. Si mise il cappello e il velo, innanzi a quella lastra offuscata che aveva apparenza d’un’acqua torba, un poco verdastra.

― Come mi dispiace di lasciarti, stasera!... Stasera più delle altre volte... ― mormorò, oppressa dalla malinconia dell’ora.

Nella stanza il lume violaceo del crepuscolo pugnava col lume delle candele. La tazza di tè era su l’orlo della tavola, fredda, diminuita dei due sorsi. In sommo delle alte coppe di cristallo i fiori di lilla parevano più bianchi. Il cuscino della poltrona conservava ancora l’impronta del corpo ch’eravisi affondato.

La campana della Trinità de’ Monti cominciò a sonare.

― Dio mio, com’è tardi! Aiutami a mettermi il mantello ― fece la povera creatura, tornando verso Andrea.

Egli la strinse di nuovo fra le braccia, la stese, la coprì di baci furiosi, ciecamente, perdutamente, con un divorante ardore, senza parlare, soffocandole il gemito su la bocca, soffocando su la bocca di lei un impeto che gli veniva, quasi invincibile, di gridare il nome di Elena. E sul corpo della inconsapevole consumò l’orribile sacrilegio.

Rimasero qualche minuto avvinti. Ella disse, con la voce spenta ed ebra: