Pagina:Iliade (Monti).djvu/250

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v.47 libro decimo 239

Per lo buio a spïar l’oste nemica,
Chè molta vuolsi audacia a tanta impresa.
   Rispose Agamennón: Fratello, è d’uopo
Di prudenza ad entrambi e di consiglio50
Che gli Argivi ne scampi e queste navi,
Or che di Giove si voltò la mente,
E d’Ettore ha preferti i sacrifici:
Ch’io nè vidi giammai nè d’altri intesi,
Che un solo in un sol dì tanti potesse55
Forti fatti operar quanti il valore
Di questo Ettorre a nostro danno; e a lui
Non fu madre una Dea, nè padre un Dio:
E temo io ben che lungamente afflitti
Di tanto strazio piangeran gli Achivi.60
Or tu vanne, e d’Aiace e Idomenéo
Ratto vola alle navi, e li risveglia,
Chè a Nestore io ne vado ad esortarlo
Di tosto alzarsi e di seguirmi al sacro
Stuol delle guardie, e comandarle. A lui65
Presteran più che ad altri obbedïenza:
Perocchè delle guardie è capitano
Trasiméde suo figlio, e Merïone
D’Idomenéo l’amico, a’ quai commesso
È delle scolte il principal pensiero.70
   E che poi mi prescrive il tuo comando?
(Replicò Menelao). Degg’io con essi
Restarmi ad aspettar la tua venuta?
O, fatta l’imbasciata, a te veloce
Tornar? - Rimanti, Agamennón ripiglia,75
Tu rimanti colà, chè disvïarci
Nell’andar ne potrían le molte strade
Onde il campo è interrotto. Ovunque intanto
T’avvegna di passar leva la voce,
Raccomanda le veglie, ognun col nome80