Pagina:Iliade (Romagnoli) I.djvu/158

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110-139 CANTO V 103

     110Disse l’eroe cosí. Balzò Stènelo a terra dal cocchio,
presso gli stette, estrasse fuor fuori dall’omero il dardo;
e il sangue zampillò traverso la tunica fitta:
onde cosí pregò Dïomede, alto grido di guerra:
     «Odimi, o figlia di Giove l’egíoco, intatta fanciulla:
115se mai con cuore amico vicina tu fosti a mio padre
nelle battaglie, anche a me propizia ora mostrati, Atena:
fa’ che quell’uomo io colga, che a tiro di lancia mi giunga,
che mi colpí per primo, che vanto or ne mena, che dice
ch’io non vedrò piú a lungo la lucida vampa del sole».
     120Cosí disse pregando; né sorda fu Pallade Atena:
agili rese a lui le membra, le braccia ed i piedi,
e, stando a lui vicina, parlò queste alate parole:
«Fa’ cuore, Dïomede, avvèntati sopra i Troiani:
ché infusa adesso t’ho nel petto l’intrepida furia
125ch’ebbe tuo padre Tidèo, cavaliere dall’orrido scudo,
e la caligine spersi che già t’ingombrava le ciglia,
perché distinguer bene tu possa dagli uomini i Numi.
Perciò, se adesso un Nume qui viene, e ti provoca a zuffa,
a faccia a faccia tu non volerti azzuffare coi Numi:
130con niun dei Numi: solo se viene a battaglia Afrodite,
ferisci pur col bronzo lucente la figlia di Giove».
     E, cosí detto, partí la Diva dagli occhi azzurrini.
Mosse di nuovo il Tidíde, fu misto coi primi alla zuffa.
E se già prima aveva desio di pugnar coi Troiani,
135ora tre volte tanto ne ardeva: pareva un leone,
quando nei campi, un pastore, preposto alle greggi villose,
poi che d’un balzo l’alto recinto ei varcò, lo scalfisce,
ma non l’abbatte; e la furia ne accresce; né attenderlo ardisce,
ma ne la stalla si caccia: sgomentan le pecore intanto,