Pagina:Iliade (Romagnoli) I.djvu/318

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587-615 CANTO XI 263

«Amici, che gli Argivi reggete e guidate alla pugna,
state, volgete la fronte, tenete lontano da Aiace
il dí fatale: ché sopraffatto è dai colpi, né credo
590che dalla guerra atroce scampare potrà: su’, correte,
state d’intorno al grande figliuol di Telàmone, Aiace!».
     Eurípilo ferito diceva cosí. Presso lui
chini, poggiati al petto gli scudi, protese le lancie,
stettero alcuni; e Aiace fra lor si ritrasse; e ristette
595appena fu tra i suoi, si volse di nuovo ai nemici.
Simili a fuoco che avvampi, lottavano questi guerrieri;
e le cavalle Nelèe recavano Nèstore lungi
dalla battaglia, e seco Macàone, pastore di genti.
Ecco, e di loro Achille veloce divino s’accorse,
600che se ne stava presso la poppa del grande naviglio,
a contemplar la guerra penosa, la fuga dogliosa.
E súbito chiamò con un grido, da presso alla nave,
Pàtroclo, il fido suo. Quegli udí dalla tenda, ed accorse:
Marte pareva; e questa l’origine fu del suo danno.
605Prese a parlare primo il prode figliuol di Menezio:
«Perché mi chiami, Achille? Che cosa t’occorre ch’io faccia?».
     E Achille pie’ veloce rispose con queste parole:
«O di Menezio figlio divino, a me tanto diletto,
or sí, che ai miei ginocchi dovranno cadere gli Achivi,
610e scongiurarmi: ché piú resister non possono ai danni!
Pàtroclo caro, va’, tu, dunque, ed a Nèstore chiedi
l’uomo chi sia ch’ei ferito conduce lontan dalla pugna.
Di dietro, in tutto in tutto somiglia al figliuolo d’Asclepio,
a Macaóne: in viso vederlo però non potei,
615tanto veloci innanzi mi sono passati i cavalli».