Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/124

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169-198 CANTO XVII 121

«Glauco, perché, quello essendo che sei, parli tanto arrogante?
170Misero me! Per senno credevo che tu superassi
tutti, quanti hanno patria la Licia dai fertili campi;
ma troppo or biasimare ti devo per ciò che tu dici.
Dici che cuore non ho d’attendere Aiace feroce!
Non sono io, quei che tema la pugna e il fragor dei cavalli:
175ma ognor vince il volere di Giove, dell’ègida sire,
che sbigottisce sovente, che toglie la gloria ai piú prodi
agevolmente, e spesso li spinge egli stesso alla lotta.
Ma vieni presso a me, rimani al mio fianco, o diletto,
giudica tu la prova, se vile io sarò tutto il giorno,
180come tu dici, o se alcuno dei Dànai, sia pur valoroso,
frenar saprò, che pugna di Pàtroclo spento a difesa».
     E, cosí detto, esortò, levando un grande urlo, i Troiani:
«Troiani, Licî, e voi, valenti a combatter da presso
Dàrdani, uomini siate, pensate a combattere, amici,
185sino ch’io l’armi indossi d’Achille, guerrier senza pecca,
le belle armi, predate da me, poi che Pàtroclo uccisi».
     E, detto ch’ebbe ciò, lontan dalla cruda battaglia
Ettore mosse, l’elmo crollando; e, movendo a veloci
passi, raggiunse i suoi compagni, e non erano lungi,
190che l’armi belle ad Ilio, recavan d’Achille Pelíde.
E quivi le indossò, lontan dalla zuffa crudele,
e die’ le proprie a quelli, perché le recassero ad Ilio.
Ed ei tutte le membra recinse con l’armi immortali
del figlio di Pelèo. Le avevano i Numi d’Olimpo
195date a Pelèo: Pelèo le diede al suo figlio diletto;
ma non doveva il figlio nell’armi del padre invecchiare.
     E vide allora Giove che i nugoli aduna, da lungi,
ch’egli indossava l’armi del divo figliuol di Pelèo,