Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/160

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409-438 CANTO XVIII 157

     E, cosí detto, surse di presso all’ancudine il mostro
410gagliardo, e trascinava, movendo, le gracili gambe.
Poscia, lontano dal fuoco i mantici pose e gli arnesi
del suo lavoro, e tutti li chiuse in un’arca d’argento:
con una spugna, poi, si deterse ben bene la faccia,
ambe le mani, il collo gagliardo ed il petto villoso,
415cinse la tunica, strinse lo scettro massiccio, e a pie’ zoppo
fuori dall’uscio mosse: con lui pur movevano ancelle
sculte nell’oro, che in tutto sembravano vive fanciulle,
perché senno entro i petti racchiudono, e forza, e favella,
e sperte sono, in grazia dei Numi, nell’opere belle;
420e ansavan sotto il peso del loro signore. E movendo,
questi, vicino a Teti, sede’ sopra il lucido trono,
e a lei prese la mano, le volse cosí la parola:
«Tètide, qual cagione t’addusse alla nostra dimora,
o riverita e cara? Di rado venirci solevi!
425Dimmi che cosa brami, ch’io bramo di farti contenta,
se pure io far lo posso, se cosa è che compiersi possa».
     E a lui dava risposta cosí, fra le lagrime, Tèti:
«Efesto, e quale mai, fra quante son Dive in Olimpo,
tanti dove’ nel cuore patir luttuosi cordogli,
430quanti ne inflisse a me più che ad altri il figliuolo di Crono?
Me, fra le Dive tutte del mare, die’ sposa a un mortale,
diede al figliuolo d’Eàco Pelèo: sí che, pur contro voglia,
giacer dovei nel letto d’un uomo. Or, da tristi tormenti
nella sua casa oppresso giace egli; ed io nuovi cordogli
435soffro; ché un figlio mi diede; io l’ho generato e cresciuto,
e primo è fra gli eroi; crescea che pareva un virgulto;
e poi che lo nutrii, come arbusto sul dorso d’un campo,
ad Ilio lo mandai, sovresse le navi ricurve,