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Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/162

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469-498 CANTO XVIII 159

fuori spirando soffi gagliardi, piú forti e piú leni,
470ora per secondare la fretta d’Efesto, ora l’agio,
come volea l’Ambidestro, per compiere a punto il lavoro.
Poscia nel fuoco gittò l’indomito bronzo, lo stagno,
e l’oro prezïoso, l’argento gittò: sovra il toppo
quindi piantò l’incudine grande; e il possente martello
475nell’una mano strinse, con l’altra impugnò le tenaglie.
     Ed uno scudo, prima di tutto, fe’, grande e massiccio,
che tutto istorïò, gittandovi un orlo d’intorno,
triplice, luccicante: fregiato era il balteo d’argento.
Aveva cinque strati lo scudo; ed Efesto sovra esso
480avea molti lavori condotti con fine artificio.
     Quivi foggiata aveva la terra ed il cielo ed il mare,
l’infaticato Sole, la Luna che piena rifulge,
e tutte quante le stelle che sono corona del cielo,
le Iädi, le Plèiadi, il fiero gigante Orïone,
485e l’Orsa, che le genti chiamare anche sogliono Carro,
che sovra un punto sempre si gira, guatando Orióne,
e tra le stelle, sola è dai lavacri d’Ocèano immune.
     Poi, vi foggiò due belle città di parlanti mortali.
Erano feste di nozze scolpite nell’una e banchetti.
490Per la città le spose guidavano ai talami, al lume
di scintillanti faci, volando il sonoro imenèo:
e giovinetti in giro tessevano danze, e fra loro
la voce si levava di flauti e di cetre; e le donne
stavano, ognuna sopra la soglia di casa, ammirando.
     495Quindi, una piazza, e in quella gran ressa di genti. Una lite
quivi era sorta: due contendeano fra lor, per la multa
d’un uomo ucciso. L’uno, facendone pubblico giuro,
dicea d’averla tutta sborsata; quell’altro negava;