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20alla sua madre si volse, parlò queste alate parole:
«L’armi che il Dio m’ha date, somigliano ad opre di Numi.
Esser cosí doveva: nessuno degli uomini, o madre,
era capace di tanto. Vo’ cingerle adesso alle membra.
Ma troppo temo adesso pel prode figliuol di Menezio,
25che nelle piaghe schiuse dal bronzo non entrin le mosche,
non generino vermi, che sconcino il corpo defunto:
ché vita piú non ha, ché tutte marciscon le carni».
     E a lui cosí rispose la Dea dall’argentëo piede:
«L’animo, figlio mio, non devi per questo crucciarti:
30lungi dal corpo io terrò le selvagge tribú delle mosche,
che sogliono far pasto degli uomini uccisi in battaglia:
se qui dovesse pure giacer sin che un anno si compia,
sempre qual’è dovrà restare, e forse anche piú bello.
Ma ora, a parlamento tu chiama i guerrieri d’Acaia,
35l’ira contro l’Atride signore di genti deponi,
súbito dopo, a guerra t’appresta; e valore te vesta».
     La Dea, con questi detti l’infuse d’audace prodezza.
Nelle narici poi di Pàtroclo, ambrosia stillava,
nèttare rosso stillava, perché non marcisse la carne.
     40E andò lungo la riva del pelago Achille divino,
e con orrende grida riscosse i guerrieri d’Acaia.
E sin quelli che inanzi soleano restar presso i legni,
ed i piloti, e quelli che avevano i remi in custodia,
e quei, che, dispensieri, partire solevano il pane,
45anch’essi a parlamento correvano, adesso che Achille
era comparso, che tanto rimasto era lungi alla pugna.
E, zoppicanti, due giungevan scudieri di Marte,
il figlio di Tidèo valoroso, ed Ulisse divino,
ambi poggiati all’asta: ché ancora soffrian delle piaghe.