Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/180

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290-319 CANTO XIX 177

290ch’io vi ritorno! Sempre per me segue un male ad un male.
L’uomo a cui data m’avevano il padre e la nobile madre,
dinanzi alla città lo vidi trafitto di spada:
i tre fratelli a me diletti, che tutti una madre
diede alla luce, tutti pervennero al giorno fatale.
295Ma tu neppur volevi, quel giorno che Achille m’uccise
lo sposo, ed espugnò la città di Minète divina,
ch’io lagrimassi: m’andavi dicendo che Achille divino
seco m’avrebbe a Ftia condotta, legittima sposa,
sui legni, e nella patria con me celebrate le nozze.
300Per questo io senza tregua ti piango, ché tanto eri mite».
     Cosí dicea pregando, gemevano pur l’altre donne.
Pàtroclo n’era il pretesto; ma ognuna sfogava il suo duolo.
     Quindi i vegliardi Achivi si strinsero intorno ad Achille,
e lo pregaron che cibo prendesse. Ma quei rifiutava,
305sempre gemendo: «Vi prego, se pure qualcun degli amici
vuol compiacermi, a me non parlate di cibo e di vino,
ch’io me ne debba saziare, ché troppo è il dolor che mi cruccia:
resistere digiuno saprò sin che il sole tramonti».
     Cosí dicendo, diede commiato il Pelíde ai sovrani.
310Ma seco i due figliuoli d’Atrèo rimanevano, e Ulisse,
Nèstore, Idomenèo vegliardo, e l’equestre Fenice.
E confortar l’afflitto tentavano a prova; ma quello
nessun conforto avere poteva, se pria non poteva
entro le fauci sanguigne gittarsi alla guerra funesta.
315E, ripensando l’amico, traeva sospiri, e diceva:
     «Oh, quante volte, infelice, diletto fra tutti gli amici,
tu nella tenda a me preparavi soave la mensa,
svelto, con ogni cura, qualora gli Achivi guerrieri
contro i Troiani, in fretta recavan la furia di guerra.