Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/48

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289-318 CANTO XIV 45

avea di quell’augello montano, di stridula voce,
290cui càlcide i Celesti, cui gli uomini chiamano nibbio.
Era, alla punta invece del Gàrgaro contro si fece,
ch’era l’eccelsa dell’Ida. La vide il tonante Croníde;
e l’ebbe appena vista, che brama gli cinse la mente,
come la prima volta che insieme si fuser d’amore,
295nel letto che li uní, di furto dai lor genitori.
Le stie’ dinanzi; e queste parole veloci le volse:
«Era, che cosa brami, che giunta sei qui dall’Olimpo?
Qui, né cavalli sono che ascender tu possa, né carri».
     Ed Era, a lui cosí, ché ordiva l’inganno, rispose:
300«Sono i cavalli a le falde dell’Ida ferace di linfe,
che me potranno addurre sui saldi terreni e sul mare.
Ora, per te venuta son qui dalle balze d’Olimpo,
perché tu poi con me non debba adirarti, se vado
senza a te dirlo, alla casa d’Ocèano dai gorghi profondi».
     305E il Nume a lei cosí, che i nuvoli aduna, rispose:
«Era, piú tardi andare colà dove dici potrai.
Ora si giaccia qui, la gioia d’amore si goda:
ché mai tale desire di donna mortale o di Dea
tanto d’intorno al mio cuore s’avvolse, e lo fece suo schiavo,
310né allor che della sposa d’Issíone amore mi vinse,
che Piritòo partorí, buon consiglio, l’uguale dei Numi,
né allor che preso fui da Dànae, la figlia d’Acríso
dal pie’ leggiadro, madre di Pèrseo, fra gli uomini il primo,
né allor che amai la figlia del tanto famoso Fenice,
315che generò da me Radamanto divino e Minosse,
né quando in Tebe amai Semèle ed Alcmèna: ed Alcmèna
a luce Ercole die’, figliuolo dall’anima invitta;
né quando amai Demètra, signora dai riccioli belli,