Pagina:Iliade (Romagnoli) II.djvu/94

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229-258 CANTO XVI 91

poi si lavò le mani, attinse il piú limpido vino.
230Poi, stando in mezzo al sacro recinto, volgendosi al cielo,
vino libò, pregò: né a Giove rimase nascosto:
«Giove, pelasgico re, dodonèo che lontano dimori,
che su Dodona imperi gelata, ed i Selli indovini
presso ti sono, che i pie’ non si lavan, che dormono in terra,
235un’altra volta ascolto mi desti, quando io ti pregavo,
a me recando onore, colpendo la gente d’Acaia:
fa’ che compiuta anche sia la prece che adesso ti volgo.
Nel nostro campo io qui rimango, vicino alle navi;
ma il mio compagno insieme con molti Mirmídoni mando
240alla battaglia: a lui concedi, Croníde, alta gloria,
e il cuore a lui nel petto rinsalda, sí ch’Ettore anch’egli
sappia, che il mio scudiere combatter sa anche da solo,
oppur se le sue mani soltanto infieriscono, invitte
siano soltanto quando io mi lancio alla zuffa di Marte.
245Ma poi ch’abbia respinta la zuffa e il clamor delle navi,
illeso torni a me, qui presso alle navi, con l’armi,
tutti, e i compagni suoi valenti a combatter da presso».
     Cosí pregava. E il figlio di Giove dal saggio pensiero
parte concesse, parte negò di quant’egli chiedeva:
250gli die’ ch’ei respingesse dai legni la guerra e il tumulto,
ma gli negò che salvo potesse tornar dalla pugna.
     E poi ch’ebbe cosí pregato, libato al Croníde,
tornò dentro la tenda, nel cofano pose la coppa,
e uscí di nuovo, e stette dinanzi alla tenda: ché ancora
255bramava il fiero scontro mirar dei Troiani e gli Achivi.
E col magnanimo Pàtroclo, in fila marciavano quelli,
chiusi nell’armi, finché sui Troiani balzarono in furia.
Si sparpagliarono quivi poi súbito, simili a vespe