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“Il mio, proprio il mio!...”

“Il tuo? Ma via!”

Per poco non entriamo nel guardinfante di una signora che s’è fermata in fondo alla scala a interrogar su, con gli occhi, d’onde arrivi il vocio.

Balziamo, Ninì da una parte, io dall’altra; usciamo a bere il latte nella rustica latteria, poi, giacchè il resto della comitiva ci raggiunge, facciamo una partita al law-tennis. La signora dalla crinolina, che ha seco una bimba rosea, coi sandali e la chioma divisa alla preraffaellita, assiste, commenta, e, mano mano, saluta l’aristocratica colonia, che viene al solito ritrovo gentile. È uno sfoggio di abiti bianchi, celesti, lilla; di cappelli, di veli; un parlar animato e piacevole senza alcuna superfettazione ostentata; par d’essere in famiglia.

Però, non appena Ninì m’ha vergognosamente battuto, le ricordo la promessa che m’ha fatto.

“Quale?”

“Quella di sonare il notturnino di Chopin!”

La signorina fa i capriccetti, trova mille scuse, assicura, per esempio, che non abbiamo visitata tutta l’anima della valle, perchè non si sono ancora veduti l’ultimo piano e le cantine dell’albergo: alla mia interruzione: “Beh! andiamo in cantina” fa spalluccie, continua a dirmi che deve inaffiare una piccola felce trapiantata il giorno prima nel boschetto soprastante, che il pappagallino d’America aspetta l’imbeccata da lei, che un piccolo fazzoletto di batista si logora attendendo d’essere ricamato...