Pagina:In faccia al destino Adolfo Albertazzi.djvu/204

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Che possanza ogni mia parola, ogni mio atto, a poco a poco, di giorno in giorno, aveva avuta su quell’intelligenza e in quel cuore!

— Non hai fiori oggi — dissi chinandomi a raccogliere un fiore di colchico.

— Mi dia quello!

— No. È velenoso.

— Che importa? Me lo dia, Carlo!

E I mentre lo fermava al petto:

— Non voglio più dirle: Sivori, Carlo: che bel nome!

Dal tono della voce m’accorsi che nel suo segreto più volte ella doveva aver ripetuto forte, così, il mio nome.

— Andiamo: arriveremo a messa finita!

Quando arrivammo il campanello indicava il Sanctus; le donne s’inginocchiavano.

Ortensia s’avvicinò a loro; là, dove ci eravamo rifugiati il dì della bufera. Ed io, poggiato al pilastro, liberamente, adiesso, avvolgevo Ortensia del mio sguardo.

...Dove andrei? in qual parte scamperei ai mio soffrire? M’accogliesse, anzi che monti aprichi e boschivi, una landa; m’arrestassero lo sguardo i muri d’una città anzi che estendermelo un orizzonte sterminato: che importava? Per tutto ella mi seguirebbe a farmi soffrire! Dolente immagine, mi seguirebbe? o ridente? Salva del mio amore? felice un giorno nell’amore di Roveni? Ah se tutto non era vanità come l’ombra che ci proteggeva; se tutto non era illusione come la fede che le pareva sentire adesso, perchè il suo Dio non le toccava il cuore e non le diceva: «Sii di me solo?»

. Non impazzivo! All’Elevazione abbassai gli oc-