Pagina:Italia. Orazione detta la sera del 13 marzo del 1917 al Teatro Adriano in Roma.djvu/11

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si copre di neve e di ghiaccio, si fa distesa, levigata. Brividi materni corrono per le sue vene già tenere che si adamantificano. Intorno è tutto gelo di morte e la neve cade sul ghiaccio e tutto si gela e si ammassa per formare la soffice coltre di lei che sente staccarsi il meglio del suo essere, una coltre che tutto ricopre e circonda, che tutte serra le cime, strato su strato, e assorbe le rupi.

Ed ecco il dramma d’amore comincia a dare il suo frutto: tutto dall’alto si scoscende, tutto dirupa e riempie e piomba sui formali ghiacciai, e il gelo di morte persegue. Silenzio senza aliti e poi scoppi di rovine, moli immani che si sfaldano e cigolando precipitano.

Finalmente gl’immani ghiacciai scendono svariando di colori nell’ora mutevole: bianchi, azzurri, di zaffiro, ametista.

Scendono e trascinano il dono della madre con loro; calano con la lentezza del dolore che non si dimentica e premono e pesano e poggiano e comprimono arricchendosi di ciò che assorbono: le rupi sono divelte, spiccate via, le selve sono ingoiate, sradicate; tutto arricchisce l’offerta; le belve sono travolte e ammassi di scheletri sono serrati nelle tombe adamantine. Tutto è sepolto nelle visceri del ghiaccio che cammina, cammina traendo la rovina dei monti e che finalmente — tutto riempiendo — si ferma e si fa ponte su cui nuove moli passano sobbalzando leggere e, a volte, scivolanti come saette che saltano le valli e creano alture su alture di gelo, procedendo sempre.