Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.1.djvu/424

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400 illustri italiani

lastrico, finchè Guidubaldo duca d’Urbino non l’accolse, e gli diede agio a finir il suo poema; di poi visse a Mantova, e governò Ostiglia.

Vita sì fortunosa non interruppe il suo poetare, e neppur lo elevò. Fra l’altre, fu amoroso d’una Ginevra Malatesta, e quand’essa sposò il cavaliere degli Obizzi, egli espresse la sua disperazione in un sonetto, che tutte le colte persone d’Italia ebbero a mente. Compose poi due poemi, il Floridante di cui più non si parla, e l’Amadigi. Il soggetto di questo eragli dato dalla moda e dalle lodi attribuite all’Amadigi, settant’anni prima pubblicato dallo spagnuolo Montalvo. Volea farlo in versi sciolti, ma gli amici e i principi lo persuasera all’ottava; volea farlo aristotelicamente uno, ma avendone letto dieci canti alla Corte, gli sbadigli e il diradarsi dell’uditorio egli attribuì alla regolarità, onde intrecciollo di tre azioni e moltissimi episodj. Finito, lo sottopose a varie persone: col qual modo non si cerca profittare d’un buon giudice, ma avere consenso e lode, comprata con condiscendenze.

I cento suoi canti cominciavano tutti con una descrizione del mattino, con una della sera si chiudeano, se gli amici non l’avessero indotto a sopprimerne alcune. Avendo dapprima diretto il poema a onore e gloria di Enrico II e della casa di Francia, ch’ei derivava da Amadigi, di poi, per secondare il duca d’Urbino, lo dedicò a Filippo II, cambiando moltissime parti ed episodiche ed essenziali.

Non era egli dunque trascinato da genio prepotente, ma deferiva all’opinione altrui, e tanti cambiamenti elisero ogni spontaneità del primo getto. Alfine il Muzio, l’Atanagi, Bernardo Cappello, Antonio Gallo furono a Pesaro convocati dal duca per esaminar l’opera, la quale era aspettatissima: l’Accademia di Venezia il pregò di lasciarla stampare da essa, ma egli preferì farlo per proprio conto.

Eleganza e morbido stile ne sono il carattere, ond’egli medesimo diceva: — Mio figlio non mi supererà mai in dolcezza». E veramente d’immagini e d’espressioni è ricco, quanto n’è indigente Torquato; ma sempre vi scorgi studio non natura, artifizio non ispontaneità; esatto ai precetti grammaticali e retorici, corregge ed orna lo stile, ama le descrizioni, ripiego de’ mediocri, ma non appassiona mai, mai non palesa il vigore che viene dalla semplicità. Lasciamo che Speron Speroni lo anteponga all’Ariosto, come il Varchi facea col Giron Cortese; sta a mille miglia da quella smagliante varietà d’intrecci e da quella limpidezza di stile; tu il leggi da capo a fondo