Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.1.djvu/68

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48 illustri italiani

erane a me giunta la fama. Quando egli vide ch’io pendeva dalla sua vista, e lo ascoltavo con raro affetto, e’ si trasse di seno un libro, con gentilezza lo schiuse, e sì me l’offerse, dicendo: Frate, ecco parte dell’opera mia, forse da voi non vista; questo ricordo vi lascio; non dimenticatemi. Il portomi libro io mi strinsi gratissimo al petto, e, lui presente, vi fissi gli occhi con grande amore. Ma vedendovi le parole vulgari, e mostrando per l’atto della faccia la mia meraviglia, egli me ne richiese. Risposi ch’io stupiva egli avesse cantato in quella lingua, perchè parea cosa difficile e da non credere che quegli altissimi intendimenti si potessero significare per parole di vulgo; nè mi parea convenire che una tanta e sì degna scienza fosse vestita a quel modo plebeo. Ed egli: Avete ragione, ed io medesimo lo pensai; e allorchè da principio i semi di queste cose, infusi forse dal cielo, presero a germogliare, scelsi quel dire che più n’era degno; nè solamente lo scelsi, ma in quello presi di botto a poetare così:

               Ultima regna canam, fluido contermina mundo,
               Spiritibus quæ late patent, quæ præmia solvunt
               Pro meritis cuicumque suis.

Ma quando pensai la condizione dell’età presente, e vidi i canti degl’illustri poeti tenersi abjetti, laonde i generosi uomini, per servigio de’ quali nel buon tempo scrivevansi queste cose, lasciarono, ahi dolore! le arti liberali a’ plebei; allora quella piccioletta lira onde m’era proveduto, gittai, ed un’altra ne temprai conveniente all’orecchio de’ moderni, vano essendo il cibo duro apprestar a bocche di lattanti».

L’Alighieri osò pertanto adoperare l’italiano a «descriver fondo a tutto l’universo»; e vi pose il vigore, la rapidità, la libertà d’una lingua viva. Che se egli non la creò, la eresse al volo più sublime; se non fissolla, la determinò, e mostrò ciò che potea. Togli le voci dottrinali, o quelle ch’egli creava per bisogno o per capriccio (avvegnachè vantavasi di non far mai servire il pensiero alla parola, o la parola alla rima1), le altre sue son quasi tutte vive. Se,

  1. L’anonimo commentatore ha: — Io scrittore udii dire a Dante che mai rima nol trasse a dire quello che aveva in suo proposito, ma ch’elli molte e spesse volte faceva li vocaboli dire nelle sue rime altro che quello che erano appo gli altri dicitori usati di esprimere». Questa è padronanza di genio, non merito,