Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.2.djvu/173

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APPENDICE D (pag.125)


L’Istituto Italiano e la Crusca.

Il solo nome di Vocabolario della lingua eccita idee di rissa, di cavillo, di quistioni che avrebbero il difetto di essere sterili, se non avessero la colpa di essere irritanti; e in Lombardia principalmente ricorda litigi, rinnovatisi a più riprese, e combattuti da paladini spesso robustissimi, di rado cortesi. Mi guarderò bene dal ridestare queste sciagurate guerrieciuole, nelle quali, se anche l’intelletto si affina e acquista pieghevolezza, il carattere s’inacerbisce, e spesso l’animo si deprava. Ma poichè non ho mai compreso che cosa guadagnino le buone cause col rimpiccinire e avvilir i loro avversarj, riconobbi non inopportuno il narrare come, in occasione della Proposta di aggiunte e correzioni al Vocabolario della Crusca, sottigliandosi sulle frasi come si suole nei dissensi, afferraronsi quelle del Monti, ove diceva il lavoro suo essere stato “favorito in ogni modo ed eccitato, anzi pur comandato dal Governo”. Persone in gran fama di liberalità ne dedussero che il Governo austriaco avesse a bella posta sollecitato il Monti a quell’opera, affine di seminar zizzania tra le provincie italiane1. Questa nota metterà il vero in luce, e mostrerà una volta di

  1. Oltre l’atrabiliare Niccolini e socj, nel giornale di Firenze La Gioventù del 31 ottobre 1862 leggo: — Dorrà sempre all’Italia che V. Monti, che capitanava quella guerra sleale, il facesse per fini non troppo onesti, come apparisce dalla lettera (così non l’avesse scritta) ch’egli, ecc. ». Alludesi alla lettera sua del 6 agosto 1826 al marchese Trivulzio, ove vecchio e apopletico lo pregava ottenergli dal Governo austriaco la pensione di storiografo, e, fra altri argomenti, volea facesse sentire a S. M. «che il miserabile stato in cui sono caduto procede, a giudizio de’ medici che mi hanno curato (e giuro che non s’ingannano), da soverchio sforzo di applicazione nell’attendere per otto anni continui, con tanto consumo di mente, ad un’opera dal Governo medesimo comandata, senza alcuna rimunerazione, e senza altro frutto per me che la intima convinzione d’aver reso colla Proposta un gran servigio all’italiana letteratura, e fatto onore alla suprema autorità che l’ha comandata. E se facesse duopo una dichiarazione dell’Istituto, che il peso a lui imposto direttamente, la riforma cioè del Vocabolario, scaricò tutto sulle mie povere spalle, anche questa dichiarazione si otterrà, e apparirà sempre più chiaro che, per zelo di servire con lodi alle superiori intenzioni, io vi ho rimesso la vita».