Pagina:Italiani illustri ritratti da Cesare Cantù Vol.2.djvu/83

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vincenzo monti 73


Cominciossi piamente a sentenziare di profanità questo allivellare la duchessa a un santo; appena uno scagli la prima pietra, gli corre dietro la ciurma, sempre esultante di deprimere chi vale; come per moda e piacenteria lodavanlo prima, per moda e piacenteria svillaneggiaronlo allora; si ristampò il componimento, travolgendone il titolo in Sonetto ad onore di Costanza Braschi, dedicato a san Nicolò; poi parodie, epigrammi, pasquinate; «non si sono mai scritte tante satire per un conclave; quante sopra i miei quattordici versi: son già due mesi che la città è tutta a rumore, e le vespe m’hanno tanto stuzzicato, che finalmente m’è scappata la pazienza; e in grazia d’alcuni ingrati che hanno voluto mordermi, ho riveduto il pelo al resto de’ miei censori».

Gittato dall’altare nella cisterna, impazientito di que’ dabbene che insegnano doversi tacere e soffrire perchè l’olio vien pure di sopra all’acqua e il merito alla fine trionfa, buttò fuori un sonetto, ch’è dei più turpi della nostra letteratura; dove ai poltroni che gli dan rovello, agli improvvisatori Berardi e Malio, al Martini, al Moirani, al Fogli, non rinfaccia solo ignoranza, o d’esser fra’ giumenti d’Arcadia il più balordo e del trombettier di Pindo universale adulatore, ma gl’imputa d’immondezze e delitti, che dovrebbero abbandonarsi al lezzo de’ postriboli e ai fiuti della Polizia1.

Preparava anche una commedia, che poi non compì, e di cui non sappiamo se non che doveva essere «la pittura di dieci o dodici, parte galantuomini e parte bricconi, vissuti al tempo di Augusto, e trasmigrati in altrettanti corpi moderni per virtù d’una poetica metempsicosi». Contro loro tirò anche nel Manfredi, dipingendo sè stesso nel buon cortigiano Ubaldo; tirò peggio nella Mascheroniana, volendo che le sue parole fossero

  1. Su questo sonetto il Monti ci raccontava un lepido aneddoto. Un cardinale una sera gli disse: — Signor abate, so che avete fatto un bellissimo sonetto. Vogliate recitarmelo»? Ed egli cominciò:

    Padre Quirino, io so che a Maro e a Flacco
    Spesse volte crudel fosti e ribelle;
    Io so che Mevio suscitasti a quello,
    Pantilio a questo, e fu villan l’attacco.

    Qui, mentre ripigliava fiato, il cardinale gli domandò: — O mi dica, questo padre Quirino è il maestro del Sacro Palazzo? — Eminenza, sì», rispose indispettito il poeta. E il prelato, credendo finito il sonetto, conchiuse: — Veramente bellissimo».