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più eloquente o più vago per l’arte, pel fiore. È un raccoglimento soave tra mistico e ardente, un po’ melanconico anche, come tutti gli stadi di bellezza e di fragilità che non possono durare, che sono come le carità benigne del vecchio Destino.

Le poesie del Giorgieri-Contri, migranti come fogliuzze su per i giornali, non possono passare inosservate ai raffinati della vita intellettuale. Una dolcezza tenera, insinuante, semplice, aristocratica, come quella che spira in certi delicati versi di Bourget, di Verlaine, scorrente nella più pura e melodiosa forma italiana: una velatura tranquilla e squisita che sbiadisce, allontana e spiritualizza l’immagine come nel sogno, un’eleganza artistica e rara che non sminuisce mai, però, la freschezza della sensazione, dell’immagine, del sentimento. E da questo felice equilibrio l’effondersi di una suggestione di fantasia e di verità, ma buona, ma refrigerante; come una melodia facile e gentile che pur ci ricordi un’ora lontana e divina e tumultuosa in cui riassumemmo tutta la nostra parte di felicità.

Cosimo Giorgieri-Contri intitola «Autunni Antichi» un breve cielo di rime, e la doppia melanconia dell’autunno e del passato impallidisce dolentemente le visioni leggiadre. Quei suoi due amanti del secolo della cipria e dei madrigali, la bianca favorita, il re, la pensosa signora vestita di viola, si delineano diafani e vissuti come certe evocazioni di Pierre Loti, l’insuperato mietitore d’asfodeli che guarda nell’ideale come in una lente magica che gli ricompone l’inafferrabile, e gli avvicina dalle profonde lontananze secolari, persone, voci, cose nella loro evidenza originaria.

Ricordo il primo sonetto: «Galante Autunno».