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mente su sè stessa medicando le sue ferite con una filosofia desolata.

Con la mano abile e leggiera, usa a determinare le sfumature senza toglier nulla della loro vaporosità, il Giorgieri-Contri ci fa sfilare dinanzi visioni penetranti di paesaggi, di figure eleganti e tranquille, di idilli leggiadri o mesti, analizzando aspetti, anime, cose, con intuizione profonda, cui l’esattezza non toglie una vaga tinta di originalità che rivela la tempra dello scrittore. Nè alcun mezzo volgare, nessuna tragicità, facilitano col rilievo la descrizione. Non c’è neppure il forte dramma intimo che oramai nella produzione romantica ha preso il posto del frettoloso e ingenuo movimento dei romanzi d’un giorno. Null’altro che le nebbie, il tedio, i languori di qualche inverno malsano dell’anima come su noi tutti, fioritura estrema del secolo, n’è passato qualcuno: condizione spirituale che, essendo la più penosamente sconsolata, è pure la più difficile per l’arte che deve essere profonda e squisita. In questo grigio velario fluttuano bensì sogni di rosa e di viola, aspirazioni, promesse, forse, ma indeterminate e lontane.

Così a questo Filippo che non sa che passeggiare in campagna e in città, solo o più o meno bene accompagnato, verrebbe voglia d’augurare ciò che un giovane di mia conoscenza, un po’ intinto della stessa pece, si augurava come ricostituente: un gran viaggio, una gran malattia o un grande amore. Filippo Albio ama, ma questo amore è una fiamma di candela, oscillante, debole, che non illumina nè riscalda, che la lontananza assopisce, gli ostacoli esauriscono, la fatalità vince quasi senza lotta, che la morte stessa dell’amata non fa che tin-