Pagina:Jolanda - Dal mio verziere, Cappelli, 1910.djvu/164

Da Wikisource.

— 162 —

faticava la sua poderosa mente — a nessuno era venuta finora l’idea che la maniera più acconcia e più semplice per rendere accessibile il gran lavoro, era di ricomporlo coi suoi stessi elementi nella prosa — farne una vasta leggenda, una magnifica fiaba per il popolo e per i ragazzi e per i profani, per invogliare intanto questa gente, per darle adito, se può e vuole, a ricercare da sè le bellezze adamantine di cui ha visto sfavillare una sfaccettatura. Quando la fantasia, la curiosità son deste, la ricerca è più naturale e più dilettosa; e quando si trova in bell’ordine chiaro ed armonico l’esatta esposizione dei concetti, molta parte della difficoltà è rimossa e vinta. Il filo d’Arianna di questa lucente prosa ci guiderà attraverso i laberinti della poesia.

L’idea era semplice e ingegnosa. Una specie dell’uovo di Colombo. Come mai nessuno ci aveva pensato prima? Ma il difficile è appunto questo: pensarci.

Il professore Agostino Capovilla, a cui balenò la felice idea, ce la presenta ora incarnata nell’operetta geniale e buona sotto un titolo e in un’edizione che rivelano il generoso intento di farne partecipi tutti.1 Egli scrive nella modesta prefazione:

«Benchè la Divina commedia sia dichiarata il nostro poema nazionale, la Bibbia degli Italiani, gli italiani però — fatta eccezione dei dotti e dei letterati — o la conoscono per averne sentito parlare o ne hanno letto appena alcuni canti: i soliti, per

  1. La Divina Commedia presentata senza il sussidio dei commenti. L. Cappelli edit. Rocca S. Casciano — L. 1,50.