Pagina:Jules Verne - Viaggio al centro della Terra, Milano, Treves, 1874.djvu/133

Da Wikisource.

viaggio al centro della terra 125

oceano, si spingeva oltre i limiti della vista. La riva intagliata largamente offriva alle ultime ondulazioni dei flutti una sabbia fina, dorata, cosparsa di quelle piccole conchiglie in cui vissero i primi esseri della creazione. Quel mare vi si frangeva col lungo mormorio proprio ai luoghi chiusi ed immensi. Una lieve schiuma fuggiva al soffio d’un vento moderato, e alcuni vapori mi battevano sul viso. Sulla spiaggia lievemente inclinata, a cento tese circa dal lembo delle onde, morivano i contrafforti di roccie enormi che salivano allargandosi ad incommensurabile altura. Taluni, fendendo la spiaggia colle loro punte acute, formavano capi o promontori rosi dal dente del risucchio. Più lungi l’occhio seguiva la loro massa che si disegnava nettamente sul fondo brumoso dell’orizzonte.

Era un vero oceano col contorno capriccioso delle rive terrestri, ma deserto e d’aspetto spaventevolmente selvaggio.

Se i miei sguardi potevano portarsi lontani sopra quel mare gli è che una luce speciale ne rischiarava i menomi particolari. Non già la luce del sole cogli sprazzi abbaglianti e la splendida irradiazione de’ suoi raggi, nè la luce pallida e vaga dell’astro delle notti che non è se non una riflessione senza calore: no; l’intensità di quella luce, la sua tremula diffusione, la sua bianchezza limpida e secca, la sua temperatura poco elevata, e il suo splendore più vivo di quello della luna, segnalavano evidentemente una origine elettrica. Era una specie di aurora boreale, un fenomeno cosmico continuo che riempiva la caverna capace di contenere un oceano.

La vôlta sospesa sopra il mio capo, il cielo, se così si vuole, sembrava fatto di gran nuvole, vapori mobili e mutevoli che condensandosi dovevano qualche volta risolversi in pioggie torrenziali. Avrei creduto che sotto una pressione atmosferica così forte non potesse avvenire l’evaporazione dell’acqua, e nondimeno per una ragione fisica che m’era ignota, larghe nubi si stendevano nell’aria. Pure allora il cielo era sereno; l’elettricità produceva meravigliosi giuochi di luce sulle volute inferiori. Soventi volte, fra due strati disgiunti, un raggio giungeva fino a noi con notevole intensità. Ma infine non era il sole poichè la sua luce era priva di calore. Lo spettacolo era triste, sovranamente melanconico. Invece d’un firmamento scintillante di stelle, io sentiva al diso-