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160 viaggio al centro della terra


«Alla zattera!» esclamò egli.

Tale fu la sua risposta. Ebbi un bel fare, supplicare, adirarmi; io dava di cozzo in una volontà più dura del granito, Hans finiva in quel momento di riattare la zattera. Pareva che quella bizzarra creatura indovinasse gl’intendimenti di mio zio. Con alcuni pezzi di surtarbrandur, egli aveva consolidato l’imbarcazione, nel mezzo della quale la vela sventolava di già.

Il professore disse alcune parole alla guida, e questa imbarcò subito i bagagli e dispose ogni cosa per la partenza. L’atmosfera era piuttosto pura e il vento di nordovest persisteva.

Che poteva io fare? Lottare solo contro due? Impossibile. Avesse almeno Hans preso le mie parti! Ma no; pareva che l’Islandese, messa da banda ogni volontà personale, avesse fatto voto d’annegazione. Non potevo ottenere nulla da un servitore così infeudato al suo padrone. Bisognava andare innanzi.

Stavo dunque per prendere nella zattera il mio posto consueto, quando mio zio mi trattenne con una mano.

«Non partiremo che domani,» disse.

Feci l’atto d’uomo rassegnato a tutto.

«Non devo trascurare nulla, soggiunse, e poichè la fatalità mi ha spinto in questa parte della costa, non la lascierò senza averla perlustrata.»

Per comprendere siffatta osservazione, giova sapere che noi eravamo bensì ritornati alla spiaggia del nord, ma non già allo stesso luogo d’onde eravamo partiti. Il porto Graüben doveva trovarsi più all’ovest. Era adunque cosa ragionevolissima che esaminassimo diligentemente i dintorni.

«Andiamo alla scoperta!» diss’io.

E, lasciando Hans alle sue occupazioni, eccoci per via. Lo spazio compreso fra il mare e il piede dei contrafforti era larghissimo, tanto che si poteva camminare una buona mezz’ora prima di arrivare alla parete delle roccie. I nostri piedi schiacciavano innumerevoli conchiglie d’ogni forma e d’ogni grandezza, in cui vissero gli animali delle prime età. Vedevo pure enormi gusci, il cui diametro passava soventi volte quindici piedi. Avevano appartenuto a quei giganteschi gliptodoni del periodo pliocenico, di cui la tartaruga d’oggidì non è più che una mostra in piccolo. Inoltre il suolo era seminato di gran quantità