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una nebbia trasparente. Quivi, sopra tre miglia quadrate, si accumulava forse tutta la storia della vita animale, appena scritta nei terreni troppo recenti del mondo abitato.

Una impaziente curiosità ci trascinava. I nostri piedi schiacciavano con rumore secco gli avanzi di quegli animali preistorici e fossili, di cui i Musei delle grandi città si contendono le rare ed interessanti reliquie. L’esistenza di mille Cuvier non avrebbe bastato a ricomporre gli scheletri degli esseri organizzati che riposavano in quel magnifico ossario.

Ero stupefatto. Mio zio aveva alzato le lunghe braccia verso la vôlta massiccia che ci serviva di cielo. La bocca spalancata oltre misura, gli occhi sfolgoranti sotto gli occhiali, il moto del capo dall’alto in basso e da diritta a mancina, tutto infine il suo atteggiamento esprimeva uno stupore senza confini. Si trovava innanzi una collezione preziosa di Leptoterii, di Mericoterii, di Lofodioni, d’Anoploterii, di Megaterii, di Mastodonti, di Protopitechi, di Pterodattili, d’ogni maniera di mostri antidiluviani ammucchiati per dargli gusto. S’immagini un bibliomane trasportato improvvisamente nell’immensa biblioteca d’Alessandria arsa da Omar e rinata dalle sue ceneri per opera d’un miracolo. Tale era mio zio, il professore Lidenbrock.

Ma fu ben altra meraviglia, quando, correndo attraverso quella polvere organica, egli raccolse un cranio denudato, ed esclamò con voce fremente:

«Axel! Axel! una testa umana!

— Una testa umana! zio mio, risposi non meno stupefatto.

— Sì, nipote! Ah! signor Milne-Edwards! Ah! Signor de Quatrefages! perchè non siete voi dove sono io, Otto Lidenbrock!»


XXXVIII.

Per intendere questa evocazione di mio zio agli illustri scienziati francesi giova sapere che, poco tempo prima la nostra partenza, era avvenuto un fatto di somma importanza in paleontologia.