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viaggio al centro della terra 171

dato al nostro punto di partenza, ma la tempesta ci ha ricondotti un po’ al disotto, di modo che seguendo la spiaggia ritroveremo porto Graüben.

— Ma in questo caso, rispose mio zio, è inutile continuare l’esplorazione, e il meglio è far ritorno alla zattera. Ma non t’inganni tu, Axel?

— È difficile asserire checchessia, perchè tutte queste roccie si rassomigliano. Credo peraltro di riconoscere il promontorio ai piedi dei quali Hans costrusse l’imbarcazione. Noi dobbiamo essere vicini al piccolo porto se pure non ci siamo già, aggiunsi esaminando un seno che credetti di riconoscere.

— No, Axel, noi ritroveremmo almeno le nostre stesse traccie ed io non vedo nulla.

— Ma vedo ben io! sclamai slanciandomi verso un oggetto che splendeva sulla sabbia.

— Che cosa è?

— Ecco!» risposi, E mostrai a mio zio un pugnale arrugginito ch’io aveva raccolto.

«To’, diss’egli, avevi dunque portato teco quest’arma?

— Io? nient’affatto! ma voi...

— No, ch’io mi sappia, rispose il professore, quest’oggetto non fu mai mio.

— E tanto meno mio, zio.

— Quest’è singolare!

— Tutt’altro! è semplicissima; gl’Islandesi hanno spesso armi di siffatta natura, ed Hans a cui questa appartiene, l’avrà perduta...

— Hans!» disse mio zio tentennando il capo. Poi esaminò l’arma con attenzione.

«Axel, mi diss’egli in tuono grave, questo pugnale è un’arma del XVI secolo, una vera daga, di quelle che i gentiluomini portavano alla cintura per dare il colpo di grazia. È d’origine spagnuola, non appartiene nè a me, nè a te, nè al cacciatore.

— Osereste voi dire?...

— Ecco, essa non si è già intaccata cacciandosi nella gola delle genti. La sua lama è coperta da uno strato di ruggine che non data nè da un giorno, nè da un anno, nè da un secolo.»

Il professore s’infervorava secondo la sua abitudine, lasciandosi andare ai voli della sua immaginazione.

«Axel, riprese a dire, noi siamo sulla via della gran