Vai al contenuto

Pagina:L'Utopia e La città del Sole.djvu/23

Da Wikisource.

prefazione. xxiii


poche parole, quasi da scherzo, persuadere molti documenti utilissimi. Vorrei che si vergognassero, o almeno fossero svergognati e si confondessero, quegli odiosi, che de’ mali pubblici non pur vivono ma trionfano; e poi insultano alle querele dell’universale e a’ sospiri dei buoni, deridendo come pazzia di teste deboli, e malinconiche, e inesperte del mondo, e incapaci della politica, il desiderare che l popoli possano vivere con tali fatiche e sventure che sieno inevitabili e tollerabili alla natura umana, e non debbano invocare come unico rimedio il morire. Un Tommaso Moro, già esercitato in molte ambascerie, poi innalzato all’amministrazione di un gran regno, non credette indecente a un ministro il filosofare; non credette ridicolo in un uomo di Stato il riprendere pubblicamente come abusi alcune usanze, le quali con danno di moltissimi profittano a pochi; il mostrare necessarie e non difficili alcune riforme che sarebbero utili a tutti. Quando il gran cancelliere nel 1506 proponeva nella sua graziosa Utopia il modello di un virtuoso e felice Stato, era si può dir barbara l’Inghilterra: e fra quella tanta ferocia fa stupore la saviezza e la gentilezza del Moro. Ora dopo trecento anni niuna parte di Europa è tanto proceduta nel viver civile che non possa riconoscerne quasi nuovi e tuttavia assai lontani gli elementi in quel libretto. E pur troppo si rimarrà (chi sa ancora per quanti anni o secoli) nella estimazione di un romanzo. Ma in tanta importunità di romanzi di vani amori, e di strane e di sciocche avventure, che tuttodì si stampano e si leggono, speriamo che tra gl’italiani non debbano mancar lettori ad un antico romanzo di pubblica felicità. State sano; e stampate più che potete de’ buoni libri; e il men che potete de’ cattivi.