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perta sul canapè, ma non si coricò. Le pareva che avesse ancora qualche cosa da fare. Che cosa? Che cosa? Ella non sapeva, non ricordava; o meglio cercava di sfuggire all’idea mostruosa che da qualche tempo rumoreggiava entro la sua testa con un rombo di uragano.

Ella ritornò a sedersi accanto al focolare, si curvò verso la fiamma e rilesse il biglietto di Paulu: poi lo bruciò. E per lungo tempo rimase immobile, coi gomiti sulle ginocchia e il viso fra le mani, fissando gli occhi sulla brage fra cui il foglietto, fattosi nero e attortigliato come una foglia secca, si trasformava lentamente in cenere.

Qualche cosa entro di lei si consumava così. La coscienza e la ragione l’abbandonavano: un velo scendeva attorno a lei, separandola dalla realtà, dalla vita, e circondandola d’ombra e di terrore. Ella non ricordò mai quanto tempo stette così, piegata su sè stessa, in uno stato di semi-incoscienza. Ella sognava e lottava per svegliarsi, ma l’incubo era più forte di lei. Ci fu un momento in cui ella si alzò e s’avvicinò all’uscio della camera: il vecchio dormiva; intorno alla tavola sedevano ancora i sei poveri, e non mangiavano, non parlavano, ma la fissavano con occhi melanconici. Specialmente Niculinu, il cieco, la guardava fisso, coi suoi grandi occhi biancastri dalle grosse palpebre livide.

Ella tornò al suo posto e chiuse gli occhi: ma non cessò di vedere davanti a sè gli occhi lattiginosi e le palpebre gonfie del povero cieco. Du-